Il 27 febbraio la Commissione centrale del Partito comunista e il Consiglio di stato hanno rilasciato un piano congiunto per lo sviluppo digitale della Cina, come riportato dai media statali. La logica del piano è contribuire agli ambiziosi obiettivi cinesi per il 2025 e il 2035, tappe dell’ascesa tecnologica di Pechino entro cui, rispettivamente, la Cina dovrà ottenere «progressi significativi» nel digitale e «raggiungere livelli leader su scala mondiale», passi ritenuti essenziali per realizzare l’auspicato «grande ringiovanimento della nazione cinese».

Lo slogan del piano è la «costruzione di una Cina digitale», una caratteristica ritenuta cruciale per acquisire un «vantaggio nella competitività» internazionale. A livello macro, lo stesso piano quinquennale 2021-2025 prevede che lo sviluppo dell’economia digitale sia prioritario per la leadership cinese. 

Il focus del piano

Il piano riguarda tecnologie specifiche che verranno interessate da uno «sviluppo accelerato». Il piano prevede di potenziare l’infrastruttura fisica del 5G e di mobilitare le risorse per aumentare l’interconnessione tra dispositivi di diverso tipo, l’«Internet delle cose», con l’ampliamento della rete satellitare.

Al centro del piano anche i big data, da gestire attraverso un nuovo sistema nazionale che integrerà un’ampliata rete di data center. I dati sono, infatti, essenziali per assicurare il progresso nel campo dell’intelligenza artificiale, tra le componenti di un’altra tecnologia chiave del piano, il super calcolo, ritenuta sempre più centrale nel nuovo corso della tecnologia cinese ma basata sui chip, al centro del confronto globale con Stati Uniti e partner. 

Proprio il raggiungimento di un livello avanzato nella produzione dei chip rappresenta un limite importante per la realizzazione degli obiettivi del 2035 e si lega a doppio filo alla questione di Taiwan, sede di Tsmc, leader nel settore, e alle politiche dell’amministrazione Biden, promotrice di una restrizione sull’export tecnologico verso la Cina. 

L’applicazione delle tecnologie citate, secondo il piano, riguarderà l’intera gamma di settori produttivi del paese, a partire da agricoltura e manifattura, inserendosi nella prospettiva complessiva di una trasformazione della Cina in un’economia autosufficiente e basata su un’industria “nobile”, in contrasto con l’idea di una “fabbrica del mondo” fondata su prodotti a basso valore aggiunto. 

5G e affini rivoluzioneranno anche i settori della finanza, dell’istruzione, della sanità, dei trasporti e dell’energia. 

Società e tecnologia

Dal documento emerge una visione biunivoca del rapporto tra società e tecnologia: senza lo sviluppo di una «cultura del cyberspazio» difficilmente la Cina potrà raggiungere i propri obiettivi. In tal senso, il piano ricalca la strategia nazionale dello scorso maggio per la «digitalizzazione culturale». 

Nel piano viene anche esplicitato che a «condurre» il progresso saranno i business privati. Andrà, tuttavia, ridefinito il rapporto tra Partito e big tech, una relazione a dir poco altalenante negli ultimi anni, caratterizzati da ambiguità, restrizioni ai privati e ricentralizzazione dei processi di sviluppo. 

Lo sviluppo tecnologico viene legato anche alla «governance ecologica»: per il Partito il digitale sarà uno strumento di «potenziamento» di questa governance, un facilitatore essenziale nel monitoraggio dei processi terrestri di lungo corso e nell’implementazione di politiche green come la decarbonizzazione dell’industria. 

Il caso TikTok

Oltre che sui chip, la partita tecnologica, che solo semplificando si può ricondurre al confronto tra Stati Uniti e Cina, si gioca anche sui big data, dirimenti, come detto, per il progresso di intelligenza artificiale e super calcolo.

L’appetito cinese per i dati personali degli utenti del web è tra le cause della crescente preoccupazione per le opache politiche in materia del social di origine cinese TikTok, recentemente, dopo la volta del Congresso e della Commissione europea, vietato anche ai dipendenti di tutte le agenzie federali americane che avranno trenta giorni per disinstallarlo da tutti i dispositivi ritenuti sensibili. 

La risposta cinese al ban rievoca i temi ormai consueti del confronto retorico tra superpotenze: per Pechino, gli Stati Uniti si sentono costantemente «poco sicuri» e, pertanto, «generalizzano il concetto di sicurezza nazionale sopprimendo le società estere».

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