Non li vediamo, non ci pensiamo, a stento immaginiamo come sono fatti, eppure regolano la nostra vita, perlomeno quella digitale. I famosi chip rappresentano per certi versi lo scheletro della nostra quotidianità: li usiamo ogni giorno, dallo smartphone alla televisione, dalle automobili ai frigoriferi, passando per qualsiasi strumento elettronico ci capiti a portata di mano. Senza contare che sono imprescindibili per interi settori, come la difesa, la sanità e i trasporti.

Da qualche anno, complice soprattutto le crisi e le instabilità recenti nel contesto internazionale, si è cominciato a parlare in maniera più costante dei chip e di conseguenza delle loro componenti fondamentali: i semiconduttori (spesso chiamati microchip). La grande attenzione rivolta verso l’industria globale che produce questi circuiti integrati è presto spiegata dall’evidente importanza strategica acquisita in questi ultimi trent’anni in cui il progresso tecnologico ha avuto una forte accelerazione.

Alla fine del 2022 la stima di Deloitte è che l’industria dei semiconduttori a livello mondiale raggiunga il valore di 600 miliardi di dollari. La crescita continuerà, con il mercato che, nel 2030, secondo le analisi di McKinsey & Company, toccherà quota 1.065 miliardi con un incremento annuale tra il 6 e l’8 per cento. Con la digitalizzazione e l’innovazione che si espande, cresce anche la domanda che però fa sempre più fatica a essere soddisfatta.

In tutto il mondo non sono così tanti i paesi e le aziende con la capacità di produrre i semiconduttori. In realtà l’intero processo di produzione è diviso in varie fasi, dalla ricerca e il design, alla fabbricazione, per arrivare al montaggio e all’utilizzo nelle diverse strumentazioni. È quindi una catena che nel mondo globalizzato spesso viene composta da attori diversi, ognuno con la propria specializzazione. Una dinamica minata alla base prima dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina scatenata da Mosca, che ha costretto a ripensare le catene di approvvigionamento e di produzione. 

L’ambito è quindi terreno fertile e oggetto sia di accordi commerciali sia di competizione, che non di rado sfocia in attriti e scontri tra i diversi attori internazionali. Non a caso viene usato sempre più spesso un termine esemplare: la guerra dei chip. Attualmente tra i principali produttori ci sono alcune grandi potenze mondiali ma anche soggetti sulla carta più piccoli: Taiwan, Stati Uniti, Corea del Sud, Cina, Giappone ed Europa.

Taiwan, l’isola al centro della contesa

Il primo paese produttore al mondo di semiconduttori è per distacco Taiwan. L’isola di Formosa, per fabbricazione, è infatti in cima alla classifica globale, dopo un boom industriale iniziato negli anni Ottanta. Una posizione ricoperta grazie all’azienda Taiwan semiconductor manufacturing company (Tsmc), il colosso creato nel 1987 dall’imprenditore Morris Chang. Attualmente la Tsmc rappresenta circa il 54 per cento del mercato in tutto il mondo della produzione delle fonderie di semiconduttori.

Una quota oggi irraggiungibile per i suoi competitor globali, senza contare che il gigante taiwanese è anche responsabile del 92 per cento dei semiconduttori con i transistor di lunghezza inferiore a 10 nanometri, quelli più avanzati presenti sul mercato. Strumenti che riescono a far risparmiare spazio ed energia nella fabbricazione di chip; oggi il processo disponibile più evoluto è a quattro nanometri, Tsmc spera nei prossimi mesi di rendere adatto alla produzione di massa quello a tre nm, mentre conta di arrivare ai due nm entro il 2025. 

Un dominio totale, considerando che sono ben poche le aziende, e quindi i paesi, ad avere questa capacità e a raggiungere risultati simili. Come se non bastasse, oltre a Tsmc, a Taiwan ci sono altre aziende più piccole – come la United microelectronic corporation (Umc) e la Powerchip semiconductor manufacturing corp (Psmc) – che fanno sì che il totale del mercato globale coperto dall’isola, relativo alla fabbricazione di semiconduttori, sia superiore al 60 per cento.

Anche per il suo ruolo di leader tecnologico globale Taiwan è al centro di tensioni geopolitiche crescenti. L’isola è tra i maggiori fornitori di chip degli Stati Uniti, ma esporta i semiconduttori anche in Cina, una condizione che rende Pechino fortemente esposta rispetto all’isola rivendicata. La controversia tra Taipei e Pechino sull’indipendenza dell’isola si intreccia con la competizione economica e strategica tra Washington e Pechino. E la questione dell’industria dei semiconduttori, tra sanzioni e blocchi delle catene di produzioni, ne è il fulcro.

I progettisti negli Stati Uniti

Se Taiwan domina incontrastata nella produzione, gli Stati Uniti sono i primi per quanto riguarda la fase precedente della catena di un semiconduttore – quindi la ricerca, lo sviluppo e il design – ma anche in quella finale, la commercializzazione. Nella progettazione gli Usa hanno una fetta maggioritaria di mercato pari a circa il 65 per cento del totale, con società come Nvidia, Advanced micro devices (Amd) e Qualcomm. Invece, le società statunitensi – tra cui la leader Intel – hanno registrato vendite per circa 258 miliardi di dollari nel 2021, cioè il 46 per cento del mercato globale secondo il report della Sia (Semiconductor industry association).

Per Washington, invece, i numeri relativi alla produzione di semiconduttori sono ben più bassi, in calo negli ultimi decenni: oggi infatti rappresenta circa il 13 per cento a livello mondiale. Dopo la pandemia e in vista della competizione con la Cina, il Congresso e la Casa Bianca in estate hanno approvato e dato il via libera a una legge con l’obiettivo di aiutare la produzione nazionale. 

Il Chips and Science Act, o Chips plus, prevede sgravi fiscali e investimenti per 52 miliardi di dollari alle aziende statunitensi, oltre a diversi miliardi per la ricerca da svolgere entro i confini Usa. Il presidente Joe Biden ha dichiarato: «Dobbiamo produrre i chip in America per ridurre i costi quotidiani e creare posti di lavoro». Il fine ultimo è ridurre la dipendenza degli Usa dall’estero, considerate le fragilità emerse negli ultimi mesi nelle supply chains globali. Ma nonostante questo, alcune aziende come Intel sono al lavoro per costruire impianti nel resto del mondo, specie in Europa, tra Germania e Italia.

In aggiunta, l’Ufficio per l’industria e la sicurezza del Dipartimento del commercio di Washington a inizio ottobre ha imposto sanzioni e restrizioni nella vendita di macchinari, strumenti e tecnologie alla Cina, in modo da bloccare l’industria di semiconduttori avanzati di Pechino, utili per lo sviluppo militare ed economico. Un provvedimento che si inserisce nella guerra commerciale, ma soprattutto tecnologica, tra le due grandi potenze. Così come la proposta dell’alleanza “Chip 4” insieme a Taiwan, Giappone e Corea del Sud in funzione anti-cinese.

La strategia cinese

Non sorprende più di tanto che la Cina sia tra gli attori maggiormente coinvolti nel mercato dei microchip, vista la rilevanza della sua industria elettronica. Non tanto per produzione o progettazione, quanto per giro di affari. Pechino, infatti, per far fronte alle esigenze delle sue aziende, è prima sia per consumo di semiconduttori in tutto il mondo sia per importazioni: ogni anno fa arrivare rifornimenti per centinaia di miliardi di dollari, in particolar modo da Taiwan.

Questo perché in termini manifatturieri, l’industria cinese di circuiti integrati non eccelle, anzi. La domanda interna di microchip viene soddisfatta solo per circa il 15 per cento dalla produzione nei territori cinesi, di cui meno della metà da aziende di proprietà strettamente cinesi. Pechino fabbrica il 6 per cento dei semiconduttori nel mondo ma di recente ha provato ad accelerare.

Xi Jinping, nel 2015, ha spinto per adottare il programma strategico “Made in China 2025” che mira, insieme ad altri obiettivi nell’industria tecnologica, all’indipendenza nella produzione dei microchip di almeno il 70 per cento entro i prossimi tre anni. Un’ambizione importante confermata dai numeri delle nuove fabbriche previste per semiconduttori in Cina: Pechino ha progettato la creazione di trentuno impianti in tutto il paese, anche se per la fabbricazione di microchip tradizionali e non di ultima generazione. La quota cinese di vendite nel mercato globale nel 2021 è stata del 9 per cento rispetto al totale, ma nel 2030 è previsto un suo aumento fino al 23 per cento.

L’azienda principale cinese è la Semiconductor manufacturing international corporation (Smic), che ha sfruttato ricchi finanziamenti statali per incrementare i propri affari. Oggetto di pesanti restrizioni commerciali, la Smic negli ultimi mesi avrebbe raggiunto il traguardo della produzione dei semiconduttori a sette nanometri. Anche la seconda società produttrice del paese, Hua Hong, ha avuto fondi da Pechino che sostiene così lo sviluppo delle proprie aziende, mentre Huawei si sta ritagliando uno spazio significativo.

La seconda Corea del Sud

Nella produzione effettiva dei semiconduttori il secondo posto dietro a Taiwan va alla Corea del Sud. Seoul, infatti, rappresenta circa il 19 per cento della fabbricazione mondiale di circuiti integrati – con particolare riferimento ai chip di memoria – ma intende aumentare in maniera consistente il suo peso nel mercato nel prossimo futuro. Una volontà che si basa in particolare sulla forza di due aziende: Samsung electronics e SK Hynix.

Nel maggio del 2021 la Corea del Sud ha avviato un piano decennale di impulso per tutto il settore dei semiconduttori. Da qui al 2030 sono previsti investimenti da parte delle società sudcoreane di produzione di circa 451 miliardi di dollari (510 mila miliardi di won), sostenute direttamente da Seoul con sgravi fiscali e incentivi. Il programma prevede la realizzazione della cosiddetta “K-semiconductor belt”, la più grande catena di approvvigionamento al mondo che collegherà diverse città e regioni sudcoreane. 

D’altronde i semiconduttori sono la principale voce di esportazioni per la Corea del Sud dal 2013 e Seoul riconosce la rilevanza strategica del proprio comparto. Le vendite delle aziende sudcoreane hanno rappresentato il 10 per cento sul totale del settore nel 2020, anche se nei prossimi anni si stima una leggera flessione a causa dell’aumento soprattutto della quota cinese.

Solo la Samsung vale il 17 per cento della produzione globale di circuiti integrati, dietro alla già menzionata Tsmc di marca taiwanese. Tra l’altro sono anche le uniche due aziende che fabbricano effettivamente microchip con tecnologie con meno di sette nanometri.

Attrazione Giappone

L’altro leader asiatico in tema di semiconduttori è il Giappone. Come gli altri attori coinvolti nel mercato, anche Tokyo si è recentemente mosso per sostenere le proprie aziende di punta, anche considerata l’estrema esposizione nei confronti di Cina e Taiwan nell’importazione di circuiti integrati utilizzati poi all’interno del paese. 

Nel giugno del 2021 il ministero dell’Economia, del commercio e dell’industria giapponese ha pubblicato la propria strategia per i semiconduttori e l’industria digitale per dare nuova linfa al comparto nazionale. Il governo nipponico, tra le altre cose, ha cominciato a invitare e a incentivare le aziende straniere a costruire impianti e fonderie di circuiti integrati sul proprio territorio. Ne è un esempio l’accordo dell’ottobre 2021 con Tsmc per costruire entro il 2027 uno stabilimento (da gestire insieme alla Sony) a Kumamoto, con il Giappone che in cambio fornirà sussidi alla società taiwanese.

Nel novembre dell’anno scorso Tokyo ha poi approvato un pacchetto di investimenti da 6,8 miliardi di dollari complessivi a beneficio dell’industria dei semiconduttori. Nelle scorse settimane, invece, il Giappone ha messo sul tavolo poco meno di 500 milioni di dollari (70 miliardi di yen) per creare Rapidus, un consorzio di alcuni colossi dell’elettronica per la produzione di microchip all’avanguardia.

I tentativi dell’Ue

L’Unione europea per ora arranca nel mercato dei semiconduttori, più o meno in tutte le fasi della catena di valore. Una situazione di vulnerabilità affrontata da Bruxelles con lo European Chips act, un piano proposto a febbraio che preme per investire soldi e attenzione nel settore dei semiconduttori con lo stanziamento di circa 43 miliardi di euro, passando però tramite gli stati nazionali. 

L’obiettivo posto dalla Commissione europea è che l’Ue passi dall’attuale 10 per cento alla soglia del 20 della produzione globale di semiconduttori entro il 2030. L’Unione europea i microchip prevalentemente li importa, come i vari prodotti di alta tecnologia che vengono costruiti grazie ai circuiti integrati. Le aziende europee di semiconduttori rimangono ancora oggi molto legate alla progettazione che proviene dagli Stati Uniti e alla produzione asiatica.

Tra i colossi europei c’è l’olandese Asml holding, azienda leader nella realizzazione di apparecchiature specifiche per la produzione di microchip, finita al centro della contesa e delle sanzioni tra Usa e Cina, ma anche Nxp semiconductors (sempre nei Paesi Bassi) e la tedesca Infineon. 

Il principale produttore diretto europeo, e tra i maggiori in tutto il mondo, è invece STMicrolectronics, una società italo-francese con diversi siti nel continente che tra l’altro ha intenzione di allargare il proprio stabilimento italiano di Catania, in linea con gli obiettivi europei, con un impianto per la produzione di substrati di carburo di silicio, il primo su larga scala in Europa. Per farlo investirà circa 730 milioni di euro, di cui 292 presi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La corsa mondiale alle quote principali del mercato dei semiconduttori è partita.
 

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