A vent’anni dall’attentato terroristico più devastante della storia – quasi tremila morti e oltre seimila feriti nel crollo delle Torri gemelle – per comprendere il contesto in cui fu concepito occorre risalire alla genesi di Al Qaeda, seguendo la via tortuosa che lega le caverne di Tora Bora ai grattacieli di Manhattan. In quest’ottica è utile ricostruire le origini del movimento jihadista e i suoi protagonisti.

Le gesta di Masada

Il primo a dare una dimensione transnazionale alla militanza fu l’islamista palestinese Abdallah Azzam, che nel 1984 creò a Peshawar, in Pakistan, il cosiddetto Ufficio servizi (Maktab al Khidamat), per assistere i volontari arabi che combattevano i sovietici in Afghanistan. Tra i suoi finanziatori c’era il ricco rampollo saudita Osama Bin Laden, il quale donava migliaia di dollari al mese per addestramento e reclutamento.

È stato calcolato che migliaia di arabi si recarono in Afghanistan tra il 1979 e il 1992. Azzam insisteva che la partecipazione alla lotta antisovietica dovesse essere guidata dai mujaheddin afgani, mentre Bin Laden e altri sauditi, smaniosi di combattere, si ritenevano i più puri missionari della causa islamica, perciò legittimati ad agire in autonomia. Un primo tentativo avvenne nel maggio del 1986, quando un piccolo gruppo di arabi guidati da Bin Laden si schierò contro i sovietici. Una notte il loro campo venne disseminato di mine e all’alba un cuoco yemenita ne pestò una perdendo una gamba, a quel punto un missile cadde a pochi metri da Bin Laden, che rimase indenne ma decise di ritirarsi con i superstiti.

A ottobre 1986, frustrato dalla prudenza di Azzam, Osama prese nuovamente iniziativa e si accampò con quattro compagni sull’altipiano di Jaji, che si affacciava sulla linea del fronte a soli tre chilometri dai sovietici nella valle. Lo sceicco saudita battezzò quel pugno di tende «Masada», la tana del leone, e per rendere l’avamposto meno esposto ai bombardamenti cominciò a scavare gallerie difensive e trincee. Ad aprile 1987 i volontari arabi dell’accampamento erano diventati settanta e vivevano in sei grandi caverne artificiali. Curiosamente, il complesso sotterraneo era in un’area sotto il controllo di guerriglieri afgani sciiti, che collaboravano con gli arabi sunniti e lavorarono alle fortificazioni di Bin Laden.

Impazienti di combattere, il 17 aprile 1987 una forza di 120 arabi capeggiati da Bin Laden e Azzam eseguì una sortita, che tuttavia fallì. Il 29 maggio gli Spetsnaz russi contrattaccarono e decimarono i mujaheddin. Bin Laden si era arrampicato su un albero, di vedetta, quando fu sfiorato da una granata che lo fece precipitare nel fango, dove rimase svenuto per tutto lo scontro. Nonostante le perdite, gli arabi respinsero l’assalto grazie a un comandante egiziano, che consegnò a Bin Laden come trofeo un fucile AK-74 appartenuto ai russi, arma poi portata dallo sceicco tutta la vita.

Nel maggio 1988, il giornalista Jamal Khashoggi (assassinato nel consolato saudita di Istanbul nel 2018) pubblicò una serie di articoli sui media arabi che descrivevano le gesta di Masada e resero celebre Bin Laden tra gli islamisti di tutto il mondo. I suoi uomini furono galvanizzati dalla vittoria e dalla leggenda di quell’impresa nacque Al Qaeda.

Unità combattente elitaria

Il nome Al Qaeda, che in arabo significa “la base”, fu dato al gruppo di veterani del campo di Masada che giurarono fedeltà a Bin Laden. Non era quindi, come chiarito dal ricercatore Thomas Hegghammer, un database di membri e neppure la «solida base del jihad» di cui scrisse Azzam nel 1988, intesa come paese, l’Afghanistan, da cui rilanciare la causa islamista globale.

L’organizzazione si consolidò a cavallo tra il 1987 e il 1988, nella massima segretezza anche nei confronti dei mujaheddin afgani. Si trattava di un piccolo gruppo di giovani arabi determinati a costruire un’unità combattente elitaria, a differenza di molti volontari dell’Ufficio servizi di Azzam, che a malapena sapevano imbracciare un fucile. Negli anni Novanta costruirono almeno sette campi di addestramento vicino Khost e Jalalabad, dove accettavano solo i migliori fra i tanti candidati.

Bin Laden era spesso malato e dolorante, assumeva farmaci per la pressione bassa e la deficienza vitaminica, riceveva iniezioni per scongiurare i suoi frequenti svenimenti, somministrate anche sotto i bombardamenti dal medico Ayman al Zawahiri, tra i capi dell’organizzazione Jihad islamica egiziana. Osama aveva anche contratto la malaria e nell’inverno del 1988 era quasi morto di polmonite, dopo che una forte nevicata aveva sommerso il furgone in cui si trovava sulle montagne afgane. Nel 1989 lo sceicco rischiò nuovamente di morire durante un assalto dei governativi alle trincee degli arabi. Malgrado il precario stato di salute, riuscì a consolidare sotto la sua leadership i veterani arabo-afghani.

La dimensione “militare” del jihadismo si concluse simbolicamente il 24 novembre 1989, quando una bomba esplose sotto l’auto di Abdallah Azzam nelle vie di Peshawar. Non fu mai chiarito il mandante dell’attentato mortale, che tolse di mezzo un islamista scomodo per molti. Quello stesso anno, Bin Laden propose al governo saudita di utilizzare i suoi mujaheddin per rovesciare il governo marxista dello Yemen del Sud, ma Riyad si rifiutò, così come quando chiese di cacciare i soldati americani dalla penisola arabica. Da lì ebbe inizio la strategia puramente terrorista degli arabo-afgani.

Tra il 1992 e il 1996 Bin Laden spostò l’organizzazione in Sudan, ospite del regime di Omar al Bashir, grazie all’intercessione dell’ideologo islamista sudanese Hasan al Turabi. In cambio, il saudita investì in una serie di progetti agricoli e industriali del paese. Un elemento interessante di questa fase fu il rapporto di Al Qaeda con i musulmani sciiti, ancora una volta di collaborazione, infatti inviò alcuni uomini ad addestrarsi in Libano con Hezbollah, il cui capo della sicurezza viaggiò in Sudan per incontrare Bin Laden.

Il nuovo nemico

Il 29 dicembre 1992 si verificò il primo attacco in assoluto di Al Qaeda contro gli interessi degli Stati Uniti. Due bombe esplosero negli hotel di Aden che avrebbero dovuto ospitare soldati americani diretti in Somalia, ma questi erano già ripartiti. Al Qaeda aveva individuato come nuovo nemico l’occidente e in particolare l’America, benché a Washington quasi nessuno conoscesse ancora questo oscuro gruppo di fondamentalisti.

Il 26 febbraio 1993 Ramzi Yusef, addestratosi in Afghanistan con Al Qaeda, tentò in autonomia di far crollare le Torri gemelle di New York con un furgone imbottito di esplosivo nel parcheggio sotterraneo, ma gli edifici rimasero in piedi, nonostante i sei morti e gli oltre mille feriti. A questo punto, dopo due attacchi legati ad Al Qaeda, l’intelligence americana avrebbe dovuto accendere i riflettori sulla nuova minaccia.

Paradossalmente, invece, al Zawahiri circolava libero nelle moschee californiane e quello stesso anno organizzò un’autobomba al Cairo contro il primo ministro egiziano, che ne uscì incolume, ma uccise una ragazzina provocando lo sdegno popolare. Poco dopo, a Mogadiscio, due elicotteri americani furono abbattuti da miliziani somali assistiti da Al Qaeda, mentre la violenza riprese il 13 novembre 1995 con l’uccisione di cinque americani a Riyad, per la quale il governo saudita giustiziò quattro arabi che avevano combattuto in Afghanistan e in Bosnia.

In quella fase, piccole squadre della Cia e dell’Fbi, tra cui l’agente speciale Ali Soufan, cominciarono a indagare su Al Qaeda, ma passarono anni prima che riuscissero a ricostruire la rete di Bin Laden. Finalmente, nel 1996, la pressione statunitense lo costrinse ad abbandonare Khartum insieme ai suoi seguaci.

Proprio quell’anno i Talebani entrarono vittoriosi a Kabul e proclamarono l’Emirato islamico dell’Afghanistan, riconosciuto solo da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati. I Talebani attingevano risorse dal Pakistan e dalla coltivazione dell’oppio, oltre a giovanissime reclute dai campi profughi nelle zone tribali. I sauditi avevano revocato il passaporto a Bin Laden, che ottenne ospitalità dal regime, nonostante le richieste dell’intelligence saudita di consegnargli lo sceicco.

Il 4 aprile 1996 il mullah Omar salì sul tetto di una moschea di Kandahar ed espose una reliquia, il mantello del profeta Maometto, venendo acclamato dalla folla in delirio come “Amir al-Muminin”, capo dei credenti. Anche Bin Laden mostrava pubblicamente lealtà nei confronti del leader afgano, ma non lo metteva al corrente dei suoi piani segreti. D’altro canto, i Talebani speravano che il saudita investisse il suo patrimonio nello sviluppo del paese, come aveva già fatto in Sudan. Ma Bin Laden aveva priorità bellicose e il 23 agosto, dai cunicoli del suo nuovo rifugio sulle montagne di Tora Bora, pubblicò una Dichiarazione di guerra contro gli americani che occupano la Terra dei due luoghi sacri. A metà del 1996 venne a fargli visita Khalid Sheikh Mohammed, con una proposta embrionale di dirottamento negli Usa.

Nel 1997 il mullah Omar fece trasferire Bin Laden e il suo seguito vicino all’aeroporto di Kandahar, in un compound chiamato Tarnak Farms, dove fu localizzato dalla Cia grazie a infiltrati locali. Nel 1998 fu elaborato un piano per affidare a miliziani tribali il sequestro di Bin Laden, da caricare su un aereo per gli Stati Uniti, tuttavia l’operazione fu giudicata troppo pericolosa e abortita dai vertici della Cia, senza presentare il piano alla Casa Bianca. Quella fu forse l’occasione più concreta di catturarlo a pochi anni dall’11 settembre.

Verso l’11 settembre

Inizialmente, Al Qaeda aveva interessi puramente tattico-militari, una sorta di forza speciale jihadista, con un basso profilo politico-strategico. Ma sul finire degli anni Novanta avvenne l’innesto di militanti del Gruppo islamico egiziano (autore della strage di Luxor nel 1997), della Jihad islamica di al Zawahiri e di estremisti pakistani come Khalid Sheikh Mohammed, che fissarono obiettivi più ambiziosi e spinsero Bin Laden a espandere il raggio d’azione del gruppo. Benché la Jihad islamica egiziana collaborasse da anni, fu assorbita formalmente in Al Qaeda solo nel giugno 2001, portando in dote combattenti esperti e agguerriti, oltre ad al Zawahiri come vice di Bin Laden.

Il 7 agosto 1998 due devastanti attacchi di Al Qaeda distrussero le ambasciate Usa a Nairobi e a Dar es Salaam, con centinaia di morti. Perciò il 20 agosto il presidente Clinton ordinò una rappresaglia missilistica che distrusse i campi di addestramento a Khost, dove avrebbe dovuto trovarsi Bin Laden. A dicembre la Casa Bianca indugiò ad autorizzare un’uccisione mirata, per mezzo di missili da crociera o sicari ingaggiati sul posto. Nel febbraio del 1999, lo sceicco era di nuovo nel mirino degli americani, che però non lo colpirono per il rischio di vittime collaterali, tra cui alcuni prìncipi emiratini impegnati nella caccia col falcone in Afghanistan.

Proprio in quel momento, Bin Laden diede luce verde a Khalid Sheikh Mohammed per organizzare i dirottamenti dell’11 settembre 2001.

Intanto, gli attacchi di Al Qaeda proseguirono. Il 12 ottobre 2000 un barchino esplosivo si schiantò sul fianco del cacciatorpediniere Uss Cole, ancorato nel porto di Aden, in Yemen, uccidendo diciassette marinai americani. Come scoprì la Commissione sul 9/11, dopo questo attacco la Casa Bianca rinunciò a bombardare i sospetti rifugi di Bin Laden a Kandahar per timori di vittime collaterali.

A questo punto, il piano proposto da Khalid Sheikh Mohammed a Bin Laden era già in marcia da tempo, i dirottatori si stavano addestrando al pilotaggio e si preparavano a entrare negli Stati Uniti.

La Commissione sul 9/11 ha declassificato documenti che testimoniano gli errori e le esitazioni dell’amministrazione Usa nel catturare o eliminare Bin Laden prima del 2001, specialmente tra il 1998 e il 2000. Tra questi, un documento dell’intelligence per il presidente Bush risalente al 6 agosto 2001, dal titolo Bin Ladin determined to strike in US, che cita l’attacco del 1993 al World Trade Center e conferma l’intenzione di dirottare aerei.

Per tragica sorte, l’ex direttore dell’ufficio newyorkese dell’Fbi, John O’Neill, che guidava le indagini su Al Qaeda insieme all’agente Ali Soufan, nel 2000 si era congedato per diventare responsabile della sicurezza delle Torri gemelle, dove morì l’11 settembre 2001 per mano dei terroristi a cui aveva dato la caccia.

Come Bin Laden giurò fedeltà al mullah Omar quale “Capo dei credenti”, anche l’attuale leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, ha confermato l’atto nei confronti dei nuovi leader supremi Talebani, nel 2015 e nel 2016. Tale mossa non è solo finalizzata a garantire un santuario ad Al Qaeda in Afghanistan, sotto la protezione talebana, ma anche in funzione di contrasto allo Stato islamico nel Khorasan, che non a caso ha criticato il dialogo fra i Talebani e il governo cinese.

La morte non confermata di al Zawahiri potrebbe aprire scenari inediti sul futuro di Al Qaeda, i cui militanti stanno partecipando al fianco dei Talebani alla riconquista dell’Afghanistan, dopo il ritiro della Nato.

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