Al suo insediamento alla presidenza, il 1° gennaio 2019, Jair Bolsonaro aveva promesso di liberare il Brasile «dal socialismo e dal politicamente corretto». Programma talmente vago, e che implicava una dose improbabile di passi indietro nella società, da nascere morto, a meno di imposizioni di tipo autoritario. E poiché i modi spiccioli si sono rivelati inattuabili, sia per la forza delle istituzioni democratiche, sia per mancanza di appoggio popolare, ecco che il bilancio finale della presidenza Bolsonaro non può che essere considerato fallimentare.

È probabile dunque che l’esperimento di estrema destra non dittatoriale, il primo in America Latina nel nuovo millennio, non supererà nemmeno il giudizio delle urne. Bolsonaro cerca la rielezione domenica 2 ottobre, primo turno delle elezioni presidenziali. Tutti i sondaggi lo danno indietro, e con forte distacco, dall’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva (in carica dal 2002 al 2010), risorto politicamente dopo una serie di disavventure giudiziarie.

Bolsonaro vinse le elezioni del 2018 proprio sull’onda dell’indignazione popolare per gli scandali di corruzione nei governi di sinistra. Ora, ironia della sorte, il Brasile è orientato a credere che il rimedio sia stato assai peggiore del male.

Il parallelo con Trump

Il parallelo Bolsonaro-Trump è una costante degli ultimi quattro anni, e in questi giorni è tornato di attualità a proposito di due dubbi. Se Bolsonaro accetterà l’eventuale sconfitta, o invece metterà in moto qualche forma di reazione violenta del genere Capitol Hill; e quale sarà il futuro del suo comunque forte seguito nell’elettorato.

La seconda questione, quella che qui ci interessa, è il lascito dell’estrema destra che molti, sbagliandosi, arrivarono a definire fenomeno casuale o contingente sia negli Stati Uniti sia in Brasile. Ora invece la gran parte degli analisti è propensa a credere il contrario.

Come Trump è riuscito a tenere le redini del partito repubblicano, nonostante la sconfitta nelle urne, il pietoso seguito e l’inchiesta giudiziaria, così il bolsonarismo in Brasile è destinato a restare una realtà politica. Era apparso quasi dal nulla quattro anni fa per opera di un allora deputato isolato, quasi una macchietta da talk show che giocava a rimpiangere la dittatura militare, fare battutacce da osteria su donne, neri e indios, promettere armi per tutti e i banditi al cimitero, e si era allargato conquistando il centro moderato.

Cosa resterà del fenomeno resta ora condizionato dai risultati di questi quattro anni di governo, e da qui occorre partire.

L’agenda conservatrice

Bolsonaro è stato eletto promettendo indipendenza in politica, iper liberismo in economia e conservatorismo nei costumi. Quest’ultima tematica è stata decisiva nella campagna di quattro anni fa, quando un bombardamento di fake news, soprattutto via WhatsApp, aveva attaccato la sinistra accusandola addirittura di pedofilia e incentivi all’omosessualità fin dall’infanzia.

Allora come oggi, Bolsonaro ha il deciso appoggio del mondo conservatore evangelico. Ma i risultati su questo fronte sono stati assai modesti e il tradizionale spirito di tolleranza brasiliano ha avuto la meglio.

Vari tentativi di liberare il possesso di armi per uso personale sono stati bloccati dal Congresso o dalla Corte suprema, e le leggi in vigore sono rimaste quasi inalterate. Idem per le politiche di quote e di inclusione razziale, nonostante il governo abbia imbottito le istituzioni di personaggi reazionari. Dove è stato possibile tagliar fondi, in compenso, lo si è fatto: il 90 per cento di quelli destinati alla lotta contro la violenza sulle donne, per esempio.

Anche le università pubbliche hanno sofferto ritorsioni (sono considerate covi di “comunisti”) e sull’insegnamento primario i numeri sono sconfortanti. Anche a causa della pandemia, e per il fatto che i bambini più poveri non hanno potuto accedere ai corsi online, il livello scolastico è ulteriormente degradato.

Bolsonaro può invece rivendicare la netta riduzione di alcuni indici di violenza: nel 2021 c’è stato il numero di omicidi più basso dell’ultimo decennio. Ma è un successo che poca acqua porta al governo federale perché quasi tutta la sicurezza pubblica in Brasile è gestita dagli stati.

I fiancheggiatori evangelici, intanto, sono stati protetti e coccolati, soprattutto per quanto riguarda le esenzioni fiscali. Aprire una chiesa in Brasile oggi è più facile che metter su una panetteria. Uno studio del quotidiano O Globo ha calcolato che si aprono in media ventuno “templi” evangelici al giorno. I quali a loro volta aiutano a eleggere centinaia di parlamentari.

È un circolo vizioso inarrestabile e nessun politico può permettersi di ostacolarlo. Ragion per cui, destra e sinistra, di avere in Brasile una seria legislazione sull’aborto è tabù per tutti. Nemmeno la sinistra osa mettere mano all’attuale proibizionismo di sostanza.

Il negazionismo Covid

Se Bolsonaro non verrà rieletto, come è probabile, si mangerà la lingua per tutte le assurdità proferite a partire da marzo 2020 sulla pandemia, e per parecchie delle sue scelte. Quasi 700mila morti hanno lasciato il segno nella società, e una commissione parlamentare di inchiesta ha già sancito responsabilità serie sul ritardo nell’acquisto dei vaccini, sull’insistenza sulle cure preventive e l’idrossiclorochina, sull’opposizione ferma ai lockdown.

Accuse pesanti, che, una volta passata la fascia presidenziale e persa l’immunità, potrebbero creare a Bolsonaro problemi con la giustizia. Nel suo negazionismo, forse il più estremo d’occidente, il leader brasiliano ha mantenuto coerenza, tenuto attorno a sé i fedelissimi ma il prezzo pagato soprattutto nella classe media, la più informata sulla realtà dei fatti, è già molto evidente nei sondaggi.

Economia creativa

«Non capisco nulla di economia, si occuperà di tutto lui». Lui è Paulo Guedes, un economista ultraliberista ai margini della vita accademica, scelto da Bolsonaro come superministro dell’Economia ancor prima della vittoria di quattro anni fa.

Anche qui i risultati sono stati modesti, con un’unica grande privatizzazione avviata, quella della Eletrobras, mentre le riforme più incisive sono state fermate dal Covid e dall’opposizione interna in parlamento.

Bolsonaro sostiene che la pandemia ha colpito meno il Brasile di altri paesi perché ha avuto lockdown più blandi, il che probabilmente è vero, e che la ripresa è più sostenuta che altrove. La proiezione per il Pil quest’anno è di un aumento del 2,7 per cento, mentre l’inflazione potrebbe fermarsi all’8 per cento. Ma il prezzo da pagare per questi numeri potrebbe essere enorme.

Contro ogni teoria liberista, Bolsonaro ha fatto approvare dal Congresso una serie di manovre definite “kamikaze” dalla stampa, per l’effetto sui conti pubblici. Per tentare di recuperare nei sondaggi, e soprattutto tra i più poveri orientati a votare per Lula, ha più che raddoppiato il sussidio destinato a 20 milioni di famiglie, ribattezzando i programmi sociali del suo rivale.

Durante la pandemia c’erano inoltre stati aiuti specifici ai poveri e ai commercianti. Peseranno sui conti pubblici anche i drastici tagli di imposte sui combustibili, che hanno fatto scendere il prezzo della benzina di un terzo dai recenti massimi. Tutto per la rielezione, ma gli effetti della pioggia di denaro sono al momento nulli: il consenso per Bolsonaro si è mosso pochissimo dopo il denaro a pioggia. «Il popolo non è scemo», ha commentato Lula.

La tragedia Amazzonia

Dopo il Covid, l’altro negazionismo che si sta ritorcendo contro Bolsonaro è quello sull’ambiente. E in questo caso il logoramento interno va di pari passo con quello internazionale. Anche se non ha osato mettere mano alla legislazione esistente, il governo di estrema destra ha mantenuto le promesse fatte alla lobby dell’agro business (e i banditi dell’Amazzonia) chiudendo entrambi gli occhi sui controlli e la repressione.

Ap Photo/Edmar Barros

In questi giorni stanno uscendo dati catastrofici sul numero di incendi nella stagione secca e gli indici di riduzione della foresta pluviale sono i peggiori in oltre un decennio. È un chiaro effetto delle decisioni di ridurre o perdonare le multe agli allevatori colti sul fatto mentre allargano i loro pascoli nella foresta, o ai cercatori di legname pregiato che invadono le aree protette.

Gli enti di controllo della vegetazione e di protezione degli indios hanno subito drastici tagli, sempre seguendo il lemma ideologico secondo il quale “il popolo dell’Amazzonia vuole lo sviluppo”. Bolsonaro ha ripetuto svariate volte, compreso dalla tribuna dell’Onu, che l’Amazzonia non è faccenda del mondo ma dei brasiliani, i quali la starebbero proteggendo a dovere.

A parte il voto fedele di alcune aree del paese arricchite dalla soia e dagli allevamenti, come la grande frontiera agricola del centro ovest, il negazionismo climatico e ambientale ha provocato un’altra erosione di consensi in quella fascia di classe media che, pur turandosi il naso, lo aveva scelto nel 2018. 

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