C’è un legame innegabile tra l’andamento della deforestazione in Amazzonia e le politiche pubbliche brasiliane.

Ma se la ripresa massiccia della distruzione viene segnalata dai numeri da almeno tre anni, la correlazione con le scelte del governo di Jair Bolsonaro diventa ora evidenza scientifica grazie al lavoro di un ricercatore brasiliano radicato in Australia, Ralph Trancoso della University of Queensland. Il quale ha scoperto che mai prima d’ora, da quando esistono puntuali rilevazioni satellitari, erano spariti pezzi di foresta così vasti. Quelli che Trancoso chiama “poligoni”, cioè aree disboscate o date alle fiamme in un unico intervento. Queste macchie scure nel mare verde della foresta sono il 61 per cento più estese nel biennio 2019-2020 che nel decennio precedente.

La certezza dell’impunità

Chi oggi aggredisce la foresta lo fa spesso per aprire aree di almeno 100 ettari, con un dispendio di denaro, mezzi e uomini assai considerevole. Perché questo cambiamento? Lo studio ha una sola risposta: la quasi certezza dell’impunità. Il classico gioco che vale la candela. Mentre fino a due anni fa la tendenza era opposta, si cercava di non farsi scoprire dal cielo diminuendo le dimensioni delle aggressioni.

Premessa necessaria: i sistemi satellitari creati negli ultimi decenni in Brasile per migliorare il monitoramento della foresta funzionano piuttosto bene. Al punto che Bolsonaro due anni fa licenziò il numero uno dell’agenzia statale che lavora sulle immagini e diffonde i dati. Ricardo Galvão, ex presidente dell’Inpe (Istituto nazionale delle ricerche spaziali), perse il posto per aver detto la verità, e cioè che nell’era Bolsonaro la deforestazione era tornata a crescere in maniera sostanziale. Galvão venne ricompensato in parte dalla rivista Nature, che a fine 2019 lo inserì nella lista dei dieci migliori scienziati dell’anno a livello mondiale. E il governo brasiliano fece la figura di quel tipo che spacca il termometro invece di curarsi la febbre. Il più efficace sistema di monitoramento si chiama Deter, che agisce in tempo reale. A volte da una sala di controllo a migliaia di chilometri di distanza si riesce ad avvisare una pattuglia ambientale che può arrivare sul posto mentre l’avanzata dei trattori e del fuoco è ancora in corso. Sempre che ci sia la volontà politica per farlo, naturalmente.

Lo studio analizza i dati e i calcoli effettuati sulle macchioline che segnalano la riduzione della copertura verde. Scopre che la media delle aree aggredite è più che raddoppiata da poco più di 10 ettari a oltre 24 negli ultimi due anni, con una esplosione di singoli spot, come si diceva, di 100 ettari e oltre, i quali rappresentano ormai oltre un terzo del totale.

Un fenomeno che non si verificava dal 2004, l’anno più nero dell’Amazzonia, quando venne stabilito il record assoluto di foresta distrutta di 28mila chilometri quadrati. Poiché furono proprio quei numeri altissimi a far avviare una serie di decisioni politiche che portarono alla riduzione al minimo del 2012 (progressi che hanno coinciso con il governo Lula e il ministero dell’Ambiente guidato da Marina Silva) l’impressione è che oggi si sia tornati indietro di tre lustri. Con le azioni repressive di quegli anni ormai quasi totalmente controbilanciate dal “liberi tutti” di Bolsonaro.

Il decennio buono

Secondo lo studio, i progressi del “decennio buono” dell’Amazzonia si svilupparono secondo tre grandi direttrici. Un piano di azione nazionale, con ampi poteri alle agenzie di monitoramento e di repressione delle illegalità, per combattere i livelli di deforestazione e le emissioni di gas serra; le pressioni sugli enti locali amazzonici iscritti nella lista dei “cattivi”, con tanto di sanzioni economiche; la moratoria sulla soia, un accordo tra i trader agricoli per non mettere in commercio prodotto cresciuto su aree disboscate recentemente, oltre a incentivi fiscali e restrizioni di credito agli allevamenti di bestiame, l’altra grande causa della distruzione di foresta. Oltre, appunto, al miglioramento dei sistemi satellitari, in grado di “vedere” interventi dell’uomo sempre più piccoli. È proprio per questo motivo che di pari passo alla riduzione totale andava diminuendo costantemente la media delle aree.

Oggi invece, scrive Trancoso, «la prevalenza di vaste macchie di perdite suggerisce un cambiamento decisivo nel modello di deforestazione, come se i proprietari terrieri, gli invasori e i tagliatori di alberi non temano più gli sforzi governativi, un tempo effettivi, di controllo e repressione».

Il negazionismo bolsonarista negli ultimi due anni e mezzo ha praticamente risposto colpo su colpo alle azioni sviluppate nei due decenni precedenti. Ha ridotto i controlli e le multe, fungendo da stimolo all’occupazione illegale di terre pubbliche; smantellato la polizia ambientale; ha stimolato la minerazione e l’agricoltura nelle terre indigene e fermato la creazione di aree protette; ha incentivato l’occupazione del territorio attraverso progetti di infrastrutture nella foresta, come strade, dighe idroelettriche e miniere. Alcuni progetti internazionali come il Fondo Amazzonia (finanziato soprattutto da Germania e Norvegia) si sono fermati. Bolsonaro ha esposto la sua visione sull’Amazzonia in ripetute occasioni, compreso il tristemente noto discorso all’inaugurazione dell’Assemblea generale dell’Onu, settembre 2020. Al suo fianco il ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, scettico come Bolsonaro sui cambiamenti climatici e l’irreversibilità degli effetti sulla foresta pluviale. Lo stimolo, diretto o indiretto, per tornare a tagliare alberi pregiati e dar fuoco a quel che resta per aprire pascoli, trova conferma dunque nei dati finali per il 2020: quarto anno consecutivo di aumento della deforestazione, ai livelli più alti dal 2008.

La fortuna, se così si può chiamare, di chi studia politiche pubbliche per salvare la grande foresta è che gli esempi del recente passato sono ancora piuttosto utili. Soltanto la moratoria della soia avrebbe risparmiato dalle fiamme 27mila chilometri quadrati di foresta nel decennio 2006-2016. Un censimento catastale delle proprietà private ha ridotto la distruzione di un altro 10 per cento tra il 2005 e il 2014. Oggi è prevalente l’idea, persino nelle file del governo Bolsonaro, che gli effetti della pressione internazionale sull’Amazzonia possano finire per colpire l’agrobusiness brasiliano assai di più dei vantaggi che scaturiscono dall’assenza di controlli e dall’anarchia totale. Un esempio è la lentezza del negoziato commerciale tra Ue e Mercosur, che si trascina da anni, fermandosi sempre sui dubbi europei per il rispetto delle norme ambientali in Brasile. L’atteggiamento dei grandi produttori agricoli e allevatori è cambiato: più che libertà totale di azione esigono una buona immagine del Brasile e quindi dei loro prodotti da esportare.

C’è chi spera che alla prossima riunione sul clima convocata dal presidente americano Joe Biden il 22 e 23 aprile in forma virtuale, e alla quale è stato invitato, Bolsonaro si presenti finalmente con una posizione più ragionevole sui temi ambientali. Esponenti del governo brasiliano hanno fatto cenno alla necessità della ripresa di aiuti internazionali per fermare la distruzione dell’Amazzonia, e gli Stati Uniti sarebbero pronti a fare la loro parte. Ma occorrono impegni precisi. Un’inedita lettera firmata da 20 governatori di stato, rappresentanti l’87 per cento del territorio nazionale, si rivolge adesso direttamente a Biden spiegando di essere «cosciente dell’emergenza climatica globale e delle responsabilità nella riduzione delle emissioni e nella lotta alla deforestazione». La lettera elogia il presidente per aver fatto rientrare gli Stati Uniti nell’accordo di Parigi e aggiunge che gli stati brasiliani «sono a disposizione per applicare in modo sicuro e trasparente le norme internazionali, garantendo risultati rapidi e verificabili». L’iniziativa è quantomeno curiosa e ricorda le prese di distanza da Bolsonaro sulla gestione della pandemia: se il governo federale non fa nulla, gli stati si muovono da soli. Ma che credibilità internazionale può mai avere un Brasile così frammentato?

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