Il trentennale dell’allacciamento delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica popolare cinese (Rpc) e Israele, che ricorre quest’anno, si sarebbe dovuto svolgere in un clima di festa. L’inaugurazione, un anno fa, del nuovo terminal automatizzato del porto di Haifa – affidato per venticinque anni alla gestione dello Shanghai international port group – e il sorpasso, sempre nel 2021, della Cina sugli Usa come primo importatore di prodotti israeliani avrebbero potuto essere celebrati come emblemi di una cooperazione che Pechino esalta come win-win, bene accolta dalla maggior parte dei pragmatici israeliani. E invece l’anniversario si sta consumando sotto tono, e in questo caso non c’entra la pandemia.

Israele è il primo stato del medio oriente e il settimo paese non comunista ad aver riconosciuto, nel 1950, la Rpc, proclamata l’anno precedente da Mao e compagni. Il padre della patria, David Ben-Gurion, aveva intuito già negli anni Trenta (con mezzo secolo d’anticipo sulle riforme di Deng Xiaoping) che in Asia orientale sarebbe sorta una nuova grande potenza e, un anno dopo essere diventato il primo premier d’Israele, ha compiuto quel gesto storico nonostante la contrarietà degli Stati Uniti, che stavano combattendo contro la Cina nella guerra di Corea (1950-1953). E malgrado il 29 novembre 1947 Pechino si fosse astenuta sul piano delle Nazioni unite (la risoluzione 181 dell’Assemblea generale) che decretava la “partizione” della Palestina, passata grazie all’ok, tra gli altri, di Stati Uniti e Unione sovietica.

In principio furono le armi

La politica mediorientale di Pechino si è a lungo mantenuta filo-araba e “anti israeliana” (nel 1988 la Rpc ha riconosciuto lo stato di Palestina). Tuttavia qualcosa era iniziato a cambiare già nel 1979, quando Deng e Jimmy Carter avevano portato a termine il riconoscimento reciproco Rpc-Usa. Da quel momento l’Esercito popolare di liberazione e Tsahal hanno iniziato a intrattenere contatti segreti, ed entrambe le armate hanno sostenuto i combattenti islamici contro l’Urss in Afghanistan.

Da allora i rapporti tra Pechino e Tel Aviv non sono che migliorati, fino al riconoscimento reciproco, arrivato il 1° gennaio 1992, e allo storico viaggio di Jiang Zemin in Israele nel 2000. Mentre s’intensificavano le relazioni politiche e commerciali, l’interesse di Pechino per Israele risiedeva anche nel legame tra Tel Aviv e Washington.

«Siamo importanti per loro, perché ci vedono come un ponte verso l’America», aveva dichiarato l’ex ambasciatore israeliano a Pechino, Matan Vilnai. «Sono convinti che possiamo influenzare gli Stati Uniti su cose che possono servire alla Cina».

L’irritazione di Washington

Diventata sempre più stretta a partire dall’inizio degli anni Novanta e fino all’inizio dello scorso decennio, la collaborazione militare tra il piccolo paese mediorientale e il gigante asiatico ha suscitato la crescente irritazione di Washington.

Gli Stati Uniti sono riusciti a bloccare la fornitura da parte di Israele di sofisticate armi alla Cina al termine di un paio di clamorosi bracci di ferro. Nel 2000 Israele è costretto a rinunciare alla commessa più lucrosa della sua storia: secondo gli Usa, i sistemi radar “Phalcon” che stava per vendere alla Rpc avrebbero potuto alterare in favore di Pechino l’equilibrio militare nello stretto di Taiwan. Per lo stesso motivo, cinque anni più tardi, l’allora premier Ariel Sharon è obbligato a far confiscare pezzi di ricambio che Israele avrebbe dovuto consegnare alla Cina per aggiornare il drone “Harpy”.

In anni più recenti a innervosire Washington sono sopraggiunte le relazioni economico commerciali Pechino-Tel Aviv, decollate con il secondo, lungo periodo in cui, dal 2009 al 2021, a dominare la politica israeliana è stato il pragmatico e business oriented Benjamin Netanyahu.

Trent’anni fa il commercio bilaterale ammontava a 250 milioni di dollari, oggi la Cina – con 22,8 miliardi di dollari di interscambio nel 2021 – è diventata il terzo partner commerciale di Israele. Entro la fine dell’anno i due paesi dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) istituire un accordo di libero scambio che stanno negoziando dal 2016 e che per la Rpc sarebbe il primo nella regione mediorientale.

Partnership per l’innovazione

I rapporti economici tra i due paesi si sono focalizzati sullo scambio tecnologia-infrastrutture, e nel mirino di Pechino sono finiti in particolare i parchi industriali, le istituzioni di ricerca e le capacità innovative della Silicon Wadi, l’area costiera intorno a Tel Aviv ad altissima concentrazione di start up.

Nel 2014 è stato istituito il Comitato congiunto sull’innovazione e la cooperazione Cina-Israele, che prevede incontri annuali tra i due governi. Nel 2017 Netanyahu ha sottoscritto con Xi Jinping una “partnership onnicomprensiva sull’innovazione”, grazie alla quale Pechino intende favorire lo sviluppo della “innovazione autoctona” (zìzhŭ chuàngxīn).

Quella che il premier israeliano ha benedetto come una “accoppiata formata in paradiso” l’anno successivo faceva registrare il picco dell’interscambio commerciale (11,6 miliardi di dollari). Gli Stati Uniti di Donald Trump però non ci stanno e, nell’ottobre 2019, il governo Netanyahu è costretto a istituire il Comitato per l’approvazione degli investimenti strategici, con focus su quelli cinesi.

Il 13 maggio 2020 il segretario di Stato, Mike Pompeo, compie una visita lampo non annunciata a Gerusalemme che, secondo i media israeliani, ha un obiettivo fondamentale: fermare gli investimenti tecnologici e infrastrutturali della Cina in Israele.

La linea degli Stati Uniti – dai quali Israele è a lungo dipeso per la sua stessa sopravvivenza – è ineccepibile: Washington, che persegue un decoupling tecnologico da quello che ha individuato come il suo avversario strategico più temibile, non può tollerare che il suo principale alleato in medio oriente fornisca alla Cina tecnologia avanzata, che può essere a doppio uso, civile-militare.

È vero, come sottolineano diversi studi, che solo una minima parte degli investimenti esteri diretti della Cina è diretta in Israele. Tuttavia è altrettanto evidente che essi sono altamente concentrati nei settori delle infrastrutture, nel quale Israele sta spendendo 5 miliardi di dollari all’anno per sviluppare la sua rete di trasporti, e della tecnologia, 449 accordi, per un valore di circa 9,14 miliardi di dollari fino al 2019. Investimenti questi ultimi che hanno raggiunto il picco nel 2018, con 72 accordi, ma che – in seguito all’intensificarsi delle rimostranze americane – hanno subìto un brusco calo, con solo 45 contratti nel 2020.

Oltre a quelli nell’ambito dello sviluppo software e scienze della salute (per un valore complessivo di 1,12 e 1,35 miliardi di dollari rispettivamente) a suscitare clamore negli Usa sono stati quelli sui semiconduttori, di Huawei e Xiaomi, che hanno aperto centri di ricerca in Israele, e dei fondi cinesi che hanno investito nei venture capital che sostengono l’innovazione in Israele.

Di particolare rilievo anche gli investimenti nel Technion-Israel Institute of technology, che ha aperto un campus nella provincia cinese del Guangdong e nell’Università di Tel Aviv.

Da Netanyahu a Bennet

In seguito alle pressioni statunitensi, gli investimenti infrastrutturali cinesi in Israele sono calati da 52 nel 2020 a 32 nel 2021, a 12 nel primo semestre di quest’anno. Per quest’anno sono attesi Ied cinesi pari a un terzo di quelli del 2018 e quelli tecnologici sono ancora più in calo (i dati relativi a questi ultimi non sono pubblici).

La nuova amministrazione israeliana guidata da Naftali Bennet si è mostrata molto sensibile alle preoccupazioni di Washington.

Per contrastare la Cina gli Stati Uniti si sono mossi anche aumentando i finanziamenti nei venture capital che investono in imprese innovative. Alla fine del 2021, il ministro delle Comunicazioni Yoaz Hendel ha istituito un gruppo di lavoro congiunto con gli Stati Uniti sulle tecnologie 5G, che la stampa israeliana ha inquadrato come parte della “battaglia tecnologica con la Cina” degli Usa. Il 13 luglio scorso, Washington e Tel Aviv hanno annunciato l’avvio del dialogo strategico Usa-Israele sulla tecnologia.

In conclusione, nei prossimi anni la cooperazione tecnologica Cina-Israele andrà avanti in maniera “discreta” e non potrà tornare ai livelli precedenti il 2020.

La luna di miele tecnologica-infrastrutturale tra Tel Aviv e Pechino è finita, lo testimonia anche il cambiamento della percezione dell’opinione pubblica israeliana, per il 66 per cento favorevole alla Cina nel 2019, solo per il 48 per cento secondo gli ultimi sondaggi.

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