Per capire cosa la leadership cinese pretende da Washington su Taiwan può essere utile analizzare quanto scritto lunedì 26 settembre su South China Morning Post da Zhou Bo, colonnello in pensione dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) e ricercatore presso il Centre for International Security and Strategy dell’Università Tsinghua di Pechino. Per Bo le relazioni bilaterali Cina-Stati Uniti sono «in caduta libera» e al momento l’obiettivo fondamentale è «evitare un conflitto nello Stretto di Taiwan» che, secondo Bo, nessuno vuole ma «appare sempre più probabile».

  • Perché è importante

Bo ricorda che le esercitazioni militari dell’Epl dell’agosto scorso (in risposta alla visita a Taiwan della terza carica degli Stati Uniti, Nancy Pelosi) hanno riguardato sei aree attorno all’Isola e sono risultate in tre giorni di blocco navale non dichiarato. Insomma Pechino vuol mostrare che ha già la capacità di isolare quello che considera un suo territorio, e forse anche di “riunificarlo” con la forza alla Repubblica popolare cinese.

Le più recenti simulazioni statunitensi al contrario prevedono una vittoria degli eserciti Usa e taiwanese, ma con un pesante tributo di vittime. Per evitare questo scenario, secondo Bo è necessario che Washington resti fedele alla sua politica “una Cina”, ovvero continui a riconoscere che esiste un solo governo legittimo della Cina (quello della Repubblica popolare cinese) e che la presidente Tsai Ing-wen e le autorità di Taipei accettino l’ambiguo principio “una Cina”, in base al quale c’è un unico territorio della Cina, del quale però sia la Repubblica popolare cinese sia il governo di Taiwan si ritengono i legittimi rappresentanti.

  • Il contesto

Le cose però stanno procedendo in direzione opposta. Con il “Taiwan Policy Act” che avanza al Congresso, il sospetto di Pechino è che a Washington stiano elaborando quella che Henry Kissinger ha definito «una specie di soluzione delle “due Cine”».

Secondo Bo «è nell’interesse dell’America rinvigorire la politica “una Cina”: dati gli intensi rapporti sia con Pechino che con Taipei, gli Usa potrebbero svolgere un ruolo unico come mediatore onesto, incoraggiando le autorità taiwanesi ad accettare il consenso del 1992», ovvero il controverso accordo raggiunto in quell’anno tra rappresentanti cinesi e taiwanesi.

Inoltre, il governo Usa dovrebbe – secondo Bo – controllarsi. «Le visite a Taiwan di funzionari americani, che probabilmente aumenteranno, sono puramente simboliche. Ma innescheranno una risposta cinese ferma e sostanziale. Taiwan subirà un colpo sempre più duro, nonostante già incomba la prospettiva di un conflitto tra Cina e Stati Uniti».

«Gli investimenti Ue in Cina in mano a un manipolo di colossi multinazionali»

Secondo il ministero del Commercio di Pechino, i dati sugli investimenti esteri diretti (Ied) in entrata, confermano l’attrattiva del mercato nazionale: 114 miliardi di dollari nei primi sette mesi del 2022 (+17,3 per cento), dopo il record assoluto di 173 miliardi di dollari registrato l’anno scorso (+20,2 per cento). L’Unione europea è il terzo principale investitore nella Cina continentale, dopo Hong Kong e Singapore.

  • Lo studio di Rhodium Group

I dati nudi e crudi nascondono però un panorama più complesso, in rapida evoluzione. Un rapporto di Rhodium Group (The Chosen Few: A Fresh Look at European FDI in China) rileva che, nel periodo 2018-2021, le prime dieci compagnie europee che hanno investito di più in Cina hanno concentrato quasi l’80 per cento degli Ied complessivi dell’Europa nella Repubblica popolare cinese (Rpc). Tra il 2008 e il 2017 le top ten rappresentavano solo il 49 per cento degli Ied.

Le case automobilistiche tedesche Volkswagen, Bmw e Daimler e il colosso della chimica Basf assommano il 34 per cento del valore di tutti gli Ied europei in Cina degli ultimi quattro anni. Nello stesso periodo il 70 per cento degli Ied europei nella Rpc è stato concentrato in cinque settori principali (automobilistico, alimentare, farmaceutico e biotecnologie, chimico, manifattura di beni di consumo), che potevano contare sul 65 per cento degli Ied nel 2013-2017 e sul 57 per cento nel 2008-2012.

Statistiche che rivelano che, dopo decenni in cui aveva rappresentato un mercato ricco di opportunità anche per le piccole e medie imprese europee, quello cinese si è trasformato in uno per “pochi eletti”. Secondo il think tank statunitense, all’origine di questo cambiamento ci sarebbero le limitazioni al movimento di uomini e merci per effetto della politica “contagi zero” applicata da Pechino, l’aumento delle tensioni geopolitiche e il rallentamento della crescita.

Sta di fatto che secondo il report «negli ultimi anni nessuna nuova azienda europea ha scelto di entrare nel mercato cinese, e le acquisizioni di compagnie cinesi si sono fermate, mentre gli investimenti greenfield (creazione di un’attività produttiva ex novo all’estero, ndr) hanno dominato sempre più il panorama degli Ied».

  • Il position paper della Camera di commercio dell’Ue in Cina

Ancora meno incoraggiante è il “position paper 2022/2023” pubblicato dalla Camera di commercio dell’Unione europea in Cina, che mette sul banco degli imputati non soltanto “contagi zero”, ma anche quella che definisce “politicizzazione” dell’economia cinese.

Attualmente per entrare in Cina tecnici e manager delle imprese europee devono sottoporsi alle misure anti-Covid riservate a chiunque entri dall’estero (dieci giorni di quarantena all’arrivo e possibili limitazioni agli spostamenti interni e lockdown, a seconda delle dinamiche di diffusione del virus). Il gruppo d’interessi che rappresenta le imprese dell’Ue prevede che una completa riapertura delle frontiere non arriverà prima della seconda metà del 2023.

Alla vigilia del XX congresso del partito comunista cinese, l’associazione che raggruppa circa 1.800 imprese europee esprime un giudizio politico netto sulle misure volute da Xi Jinping: «L’allontanamento della Cina dal resto del mondo – incarnato dalle restrizioni imposte dalla sua politica Covid-19 – indica che, al momento, l’ideologia sta prevalendo sull’economia».

Presentando ai media il documento, il presidente della Camera, Jorg Wuttke (sinologo e vice presidente di Basf China), ha affermato: «Crediamo che la Cina stia perdendo il fascino che aveva una volta. La Cina è sempre stata estremamente prevedibile, affidabile ed efficiente, e all’improvviso questi tratti vengono messi in discussione e sono messi alla prova – in particolare, la prevedibilità – da frequenti e irregolari cambiamenti politici».

Il riferimento è alla “doppia circolazione” lanciata dalla leadership cinese nel 2020, ovvero alla scelta strategica di incentrare lo sviluppo nazionale sulla produzione, sulla circolazione e sul consumo interno più che sugli scambi con l’estero, un tentativo che, secondo Xi e compagni, si adatta a un paese che deve sviluppare una sua industria avanzata in una fase in cui le principali economie non sono più disposte a cedergli tecnologia avanzata.

Il documento della Camera di commercio Ue evidenzia che, per effetto delle crescenti difficoltà operative, le imprese dell’Ue non stanno solo riducendo le loro operazioni in Cina. Quelle che restano sono costrette a creare due sistemi separati – uno per la Cina e uno per il resto del mondo – per non rischiare di incorrere in sanzioni e boicottaggi, riducendo l’efficienza e aumentando i costi.

La Camera di commercio dell’Ue in Cina auspica anche un dialogo più intenso tra le istituzioni comunitarie e Pechino per favorire una de-escalation su Taiwan, che ha già indotto molte compagnie dell’Ue in Cina a prepararsi per uno scenario simile a quello prodottosi dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

YUAN, di Lorenzo Riccardi

La Cina punta sempre di più su Sud-est asiatico e Asia centrale

Secondo i dati dell’autorità doganale, ad agosto il valore del commercio estero della Cina è cresciuto dell’8,6 per cento rispetto all’anno precedente, raggiungendo 3,7 mila miliardi di yuan (circa 532 miliardi di dollari), mentre nei primi otto mesi del 2022 sono stati scambiati beni per 27 mila miliardi di yuan, con un incremento del 10 per cento su base annua. Le esportazioni sono aumentate del 14 per cento, raggiungendo 16 mila miliardi di yuan, mentre le importazioni sono in crescita del 5 per cento rispetto all’anno precedente, a 12 mila miliardi di yuan, con un surplus commerciale di 3,6 mila miliardi di yuan.

Pechino conferma i suoi tre principali partner commerciali: l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), l’Unione europea e gli Stati Uniti, con performance in crescita nei primi otto mesi del 2022 (rispettivamente del 14 per cento, del 9,5 per cento e del 10 per cento). Mentre con le economie della Belt and Road Initiative l’aumento è stato del 20 per cento su base annua, mentre con i membri dell’accordo d libero scambio Regional Comprehensive Economic Partnership, il delta è +7,5 per cento. La Cina insomma orienta il proprio focus sempre più verso le relazioni economiche con Sud-est asiatico e Asia centrale.

Anche gli scambi con i membri dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) sono cresciuti nel 2022. Le importazioni e le esportazioni della Cina con i paesi Sco hanno raggiunto un livello record di 1.730 miliardi di yuan (250 miliardi di dollari) da gennaio ad agosto, +26 per cento rispetto al 2021. Nel solo mese di agosto, il volume degli scambi ha raggiunto il livello record di 257 miliardi di yuan, con un incremento del 29 per cento rispetto all’anno precedente.

I dati forniti dalle dogane mostrano che dagli altri membri della Sco la Cina ha importato petrolio greggio, carbone e gas naturale, il cui valore combinato rappresenta il 60 per cento delle importazioni totali da questi paesi. Mentre le importazioni di prodotti agricoli hanno rappresentato il 7,5 per cento sul totale dei flussi. Pechino esporta invece verso i partner Sco dell’Asia centrale macchinari e attrezzature elettroniche per oltre il 53 per cento.

Fondata nel 2001, per Pechino la Sco sta diventando sempre di più un polo d’attrazione politico economico alternativo alle potenze occidentali. Attualmente comprende otto membri: Cina, Russia, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan, India, Pakistan e Uzbekistan.

Shenzhen ha un piano quinquennale per gli sport elettronici

Shenzhen mira a diventare una capitale internazionale degli sport elettronici. A tal fine le autorità locali hanno approntato un piano quinquennale per favorire lo sviluppo del mercato che ruota attorno agli atleti da joystick. Il progetto prevede finanziamenti fino a 2 milioni di yuan (289mila euro), a seconda della popolarità raggiunta, per gli esports sviluppati nella metropoli della provincia del Guangdong, e fino a 5 milioni di yuan (724 mila euro) per gli sport virtuali che entreranno a far parte dei principali campionati internazionali.

  • Perché è importante

Secondo il governo della città, «l’industria degli esports è una parte importante dello sviluppo dell’economia digitale, con un mercato enorme e un alto livello tecnologico». Il piano quinquennale prevede il coinvolgimento di università e istituti professionali, che saranno incoraggiati a offrire corsi sull’industria dei videogiochi, la costruzione di un paio di grandi arene per gamers che possano ospitare competizioni internazionali e lo sviluppo di un ecosistema nel quale la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale possano essere applicate agli sport elettronici. Nella megalopoli dove nel 1979 Deng Xiaoping fece istituire la prima zona economica speciale operano attualmente circa 4mila aziende di videogame, tra le quali il colosso Tencent, produttrice del celeberrimo “Honor of Kings”.

  • Il contesto

Shenzhen sta per varare il suo ambizioso piano proprio mentre il governo centrale ha operato un giro di vite sul mercato dei videogame, per controllarne i contenuti e contrastare il fenomeno della dipendenza. A tal fine è stato limitato il tempo di gioco per i minorenni: tra le 20:00 e le 21:00, solo il venerdì, il sabato, la domenica e i giorni festivi, restrizioni che hanno reso impossibile la formazione di squadre di esports competitive composte da giocatori al di sotto dei 18 anni.

Inoltre, nonostante i ripetuti lockdown parziali in diverse città della Cina, anche il mercato dei videogame è stato colpito dal rallentamento dell’economia nazionale. Nella prima metà del 2022, il fatturato dei videogame cinesi è sceso dell’1,8 per cento su base annua (il primo calo dal 2008), mentre il numero di giocatori è sceso a 665.69 milioni alla fine di giugno dai 666.57 milioni dello scorso dicembre.

Students compete in an online mobile game in a league match organized by the Chinese University Esports Association in a shopping mall in Shanghai, China Sunday, Nov. 28, 2021. (FeatureChina via AP Images)

Consigli di lettura della settimana:

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Michelangelo Cocco @classcharacters

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