Sino a dove intende spingersi Netanyahu? Interrogativo difficile da rimuovere di fronte alla portata dell’attacco al consolato iraniano a Damasco, che aveva come bersaglio grosso il generale Mohammed Reza Zahedi e il suo vice Mohammed Hadi Haji Rahimi – esponenti di primo piano del dispositivo strategico dei Pasdaran nel paese della Mezzaluna fertile – impegnati in colloqui con la Jihad islamica palestinese, organizzazione che fa parte dell’Asse della Resistenza.

Attacco che, ancora una volta, disattende le raccomandazioni degli Stati Uniti di non allargare la guerra, e trasformarla, più di quanto già lo sia divenuta, in ampio conflitto regionale. Un conflitto che, viste le difficoltà incontrate sul fronte ucraino, l’amministrazione Biden non vuole e non può permettersi. Tanto più nel corso di una competizione presidenziale che, a causa della minacciata diserzione alle urne di elettori di origine mediorientale e africana e dell’ala sinistra, propalestinese e giovanile, dell’elettorato dem, potrebbe determinare il ritorno alla Casa Bianca di Trump.

Prospettiva cui, Netanyahu, ormai ai ferri corti con Biden, guarda con favore: con The Donald nuovamente nella Sala Ovale, la sua definitiva uscita di scena, data per certa dopo la debacle del 7 ottobre e poi accantonata dalla guerra che ha fatto scattare il tipico riflesso all’unità di Israele, potrebbe essere scongiurata. Impantanato militarmente a Gaza – nonostante la forza impiegata, i bombardamenti che hanno distrutto la superficie della Striscia, i massicci sfollamenti della popolazione, Tsahal non è ancora venuto a capo della residua capacità di resistenza militare di Hamas – Israele è finito, anche politicamente, in un vicolo cieco. La punizione collettiva inflitta alla popolazione gazawi – non ultimo il sospetto di usare la fame come arma di guerra, alimentato a dall’uccisione dei sette operatori umanitari della ong Wck – ha alienato il sostegno che Israele aveva accumulato dopo il massacro del 7 ottobre. La dismisura della vendetta, insieme all’esplosione in rete del dibattito sulla guerra, non più appannaggio di politici, storici e opinionisti, ha prodotto uno sfavorevole impatto sugli orientamenti dell’opinione pubblica mondiale.

Il portato dell’attacco di Hamas – da un lato la guerra, dall’altro il ritorno in campo, su spinta americana, della questione, insidiosissima per Israele, dei “due stati” – ha mandato in frantumi la strategia di Netanyahu. Il premier, infatti, non è ostaggio, ma parte integrante di un campo politico, quello della destra estrema, che sostiene il suo governo, che comprende due partiti attivisti messianici, di matrice nazionalreligiosa e kahanista. Forze che non solo reclamano il possesso di “Giudea e Samaria”, ovvero della Cisgiordania già ampiamente colonizzata, ma vorrebbero anche il ritorno dei coloni, evacuati quasi vent’anni fa da Sharon, a Gaza.

L’interesse di Bibi

L’incubo di Hamas, assai difficile da distruggere – non è solo un gruppo armato, ma anche un partito politico e una confraternita religiosa – e, sia pure gravemente indebolita, pronta a ricostituirsi in Cisgiordania; la prospettiva della nascita di uno stato palestinese garantito da Usa e mondo arabo-islamico; la ripresa, sul piano interno, del movimento di protesta che chiede, come fanno anche importanti politici americani di origine ebraica, le sue dimissioni e nuove elezioni; il serissimo problema, per la tenuta di una maggioranza che si regge anche sul consenso dei partiti religiosi ultra-ortodossi, della legge sul servizio militare degli haredim e del finanziamento delle loro yeshivot, le scuole religiose, in una fase in cui la guerra impone la contrazione della spesa pubblica non legata a difesa e sicurezza e viene messa in discussione l’insostenibile esenzione, per motivi religiosi, di quel dovere civico di solidarietà collettiva che la maggioranza degli israeliani assolve mediante il servizio di leva e il ciclico richiamo dei riservisti: tutto questo fa vacillare Netanyahu.

Per restare al potere Bibi ha, più che mai, bisogno della guerra. E dal momento che anche il ventilato attacco finale a Rafah – dal quale gli alleati, americani in primo luogo, stanno cercando di dissuaderlo nel timore dei prevedibili, alti, costi umani e politici che rischia di provocare – potrebbe esaurirsi in poche settimane, allora la guerra deve estendersi ad altri scenari, capaci di garantirne la durata almeno sino all’avvento di un graditissimo autunno a stelle e strisce in salsa trumpiana.

Tregua nucleare

Non è un caso che, da settimane, si sia intensificato lo scontro sul fronte nord, quello con Hezbollah. Se, come prevedibile, il Partito di Dio non accettasse, dopo un’intensa campagna militare mirata a creare una nuova fascia di sicurezza sul Litani, di ritirarsi dal confine, allora Israele potrebbe portare l’attacco nel cuore del Paese dei Cedri. Nonostante le affermate autonomie, però, Hezbollah significa Iran. In queste settimane gli Usa hanno fatto di tutto per evitare l’apertura del pericoloso fronte libanese. A sua volta, il regime iraniano teme una guerra aperta con Israele: sa che, in tal caso, è a rischio la sua stessa sopravvivenza, già minacciata da un delegittimante dissenso interno, come hanno dimostrato anche le recenti elezioni parlamentari, marcate dal forte astensionismo. Teheran preferisce la guerra per suo conto dei proxies: in Libano come in Siria, Iraq o nel Golfo. Guerra anche più semplice da tenere in forma. Attaccare l’Iran, sia pure a Damasco, significa per Israele obbligare turbanti ed elmetti a rispondere, se non altro per salvare la faccia, come prevedibilmente confermano le parole del leader Khamenei. L’intento israeliano è anche quello di far naufragare la silenziosa tregua sul nucleare, assai labile perché non formalizzata, stabilita di fatto tra Iran e Usa. È la strada della guerra lunga quella che Netanyahu pare aver imboccato con i missili lanciati dagli F-35.

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