Un nuovo dossier di prove contro la Cina è stato sottoposto alla Corte penale internazionale. È il terzo che il team di avvocati guidati da Rodney Dixon, che collabora con il governo dell’Est turkestan in esilio, ha inviato all’Aia dal 2020 a oggi e ha l’obiettivo di dimostrare che è in corso un genocidio a danno della minoranza uigura per mano delle autorità di Pechino.

Gli esperti legali stanno raccogliendo testimonianze per portare davanti la Corte penale internazionale anche gli stati che aderiscono al suo statuto (come il Tagikistan il Kazakistan e il Kirghizistan) e che, secondo l’accusa, deportano gli uiguri in Cina su pressione delle autorità di Pechino. Una volta arrivati nel paese gli uiguri vengono rinchiusi in campi e centri di detenzione, dove sono sottoposti a lavori forzati nonché a trattamenti degradanti e a torture.

Si tratta della politica repressiva di Pechino, denunciata dal parlamento europeo e da diverse organizzazioni internazionali a difesa dei diritti umani, contro la minoranza turcofona e di origine islamica dello Xinjiang. Repressione mascherata da lotta al radicalismo ma che in realtà finisce per colpire circa un milione di persone, che secondo il parlamento europeo sono rinchiusi nei campi di lavoro forzati e centri di detenzione.

Secondo la recente inchiesta “Xinjiang police files” pubblicata a maggio del 2022 la strategia repressiva cinese è decisa e approvata direttamente dal presidente Xi Jinping e dal primo ministro Li Keqiang.

Gli interrogatori e le torture

Le nuove prove si basano soprattutto sulla testimonianza di un uiguro che è riuscito a scappare dai campi di detenzione e di lavoro forzato nel 2018. Agli avvocati ha detto che lui e altri detenuti sono stati sottoposti a lunghi interrogatori oltre che a cure forzate con medicinali di cui non ne sapevano il contenuto e gli effetti. Ong e avvocati accusano da anni le autorità di Pechino di controllare le nascite somministrando alle donne e agli uomini uiguri medicinali che provocano l’infertilità.

Il testimone ha detto anche di aver sùbito torture con scosse elettriche e di essere stato sottoposto alla “tiger chair”, una delle forme di tortura più utilizzate e che consiste nell’immobilizzare i sospettati durante gli interrogatori in una sedia con le manette alle gambe per diverse ore o giorni.

All’interno dei centri di detenzione annunci quotidiani minacciavano i detenuti che, se fossero scappati all’estero, non sarebbero potuti sfuggire al controllo dello stato. Sugli schermi dei centri di detenzioni i testimoni raccontano che venivano trasmesse le immagini e i nomi degli uiguri “ricercati” al di fuori del paese. Ai detenuti le guardie promettono ricompense per qualsiasi informazione utile a localizzare e rintracciare i ricercati. Molti di questi si trovavano in Tagikistan, a dimostrazione, secondo gli avvocati, che la Cina sta compiendo deportazioni dai paesi vicini.

La persecuzione all’estero

Per chi è riuscito a lasciare il paese prima di essere rinchiuso nei centri di detenzione la vita non è così semplice. C’è un controllo ossessivo da parte dei servizi segreti di Pechino che tentano in diversi modi di riportare gli uiguri in esilio nel loro paese di origine. «Gli informatori ti guardano. Sanno dove vai, cosa compri, come preghi e inviano messaggi in Cina su di te» aveva raccontato una fonte ai legali.

Le autorità cinesi si muovono seguendo uno schema preciso: prima di tutto vengono contattati i famigliari della vittima a cui viene chiesto di fare pressione per far ritornare i loro cari; dopodiché vengono rifiutati i rinnovi di passaporti e visti da parte delle autorità consolari all’estero; e infine vengono minacciati anche i famigliari presenti in Cina.

Altri due uiguri che hanno lasciato il Tagikistan e sono scappati in Uzbekistan hanno descritto il modus operandi degli ufficiali cinesi per fare pressione sugli agenti di frontiera che controllano gli aeroporti in Tagikistan e negli altri stati limitrofi. «Vi riportiamo indietro perché siete uiguri. Non importa se avete un visto valido, noi dobbiamo per forza rimpatriarvi», sono le dichiarazioni di un poliziotto tagiko riportate dal testimone sentito da Rodney Dixon.

Le accuse

Secondo il team legale «questa strategia di “raggruppamento” è tipica delle autorità statali che cercano di distruggere in tutto o in parte un altro gruppo razziale, etnico o religioso. La strategia ha dei parallelismi con i piani di altri genocidi in cui le vittime venivano radunate dal luogo in cui vivevano e deportate nel territorio dei perpetratori, dove dove vivevano e deportate nel territorio dei perpetratori, dove sarebbero state prese di mira».

Lo scorso 8 giugno il parlamento europeo ha pubblicato una proposta di risoluzione in cui condanna il fatto che «la comunità uigura nella Repubblica popolare cinese sia stata sistematicamente oppressa con misure brutali, tra cui la deportazione di massa, l’indottrinamento politico, la separazione delle famiglie, le restrizioni alla libertà religiosa, la distruzione culturale e l’ampio ricorso alla sorveglianza».

Centinaia di prove sono state raccolte negli ultimi due anni, ora spetta alla Corte penale internazionale capire se può procedere contro Pechino. Ma non è semplice, dato che la Cina non ha ratificato lo statuto della Corte e quindi non può essere sottoposta al suo giudizio. Ma dimostrando che i crimini, in questo caso le deportazioni, avvengono in altri stati che sono sottoposti al giudizio della Corte penale internazionale, la Cina può essere perseguibile. 

«Il tempo a nostra disposizione sta per scadere. Se la Corte penale internazionale non agisce presto per aprire questa indagine, potrebbe non esserci più nessun uiguro da salvare», ha detto il primo ministro del governo uiguro in esilio Salih Hudayer.

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