«La storia ha una sua importanza. Dimostra chiaramente che la corsa al riarmo in nome di una presunta deterrenza che garantirebbe equilibri e pace è una pura illusione», dice Raul Caruso, professore ordinario di politica economica alla Cattolica di Milano e direttore di Peace Economics, Peace Science and Public Policy. «Ha fallito fin dai tempi di Atene e Sparta, di Alessandro Magno, nella Prima guerra mondiale tra Francia e Germania, e continua a fallire oggi».

Deve essere quindi l’ignoranza del passato, anche recente, a dettare le scelte dei leader mondiali, assieme - come ben espresso da Carlo Rovelli nell’intervista che apriva la serie di articoli dedicati a riarmo e disarmo - al peso degli interessi.

Non si spiegherebbe altrimenti la fotografia che ci restituisce il report annuale appena pubblicato dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), secondo cui nel 2021 la spesa militare mondiale ha ampiamente superato la soglia dei due trilioni di dollari, raggiungendo il record storico di 2.113 miliardi.

È una vetta senza precedenti che segnala una crescita dello 0,7 percento rispetto al 2020 e un incremento del 12 percento negli ultimi dieci anni. In altre parole, nell’anno del Covid-19, mentre il mondo intero chiudeva tutto il chiudibile e correva ai ripari con misure drastiche, mentre si dava fondo alle casse pubbliche per garantire vaccini, resilienza e ripresa, neanche in quel drammatico momento di crisi si è pensato all’opportunità, almeno per un anno, di fermare la corsa agli armamenti.

Nello stesso periodo sono aumentate le guerre in varie parti del mondo, con alcune aree nelle quali si sono registrate recrudescenze (Sahel, regioni anglofone del Camerun, Yemen, Myanmar, solo per citarne alcune) o altre in cui addirittura sono scoppiati veri e propri conflitti, come nel caso della guerra che tuttora si combatte in Tigray e in altre regioni dell’Etiopia, esplosa nel novembre 2020.

In molti casi le armi, esportate dai maggiori spenditori, prima vengono inviate per “aiuto”, come nei casi dell’Afghanistan, dell’Iraq o della stessa Ucraina, poi, una volta terminato il confronto militare, restano sul territorio e finiscono sempre in mani sbagliate.

Anche questo fenomeno nel 2021 ha contribuito allo sconcertante risultato di portare a 70 i paesi nel mondo coinvolti a vari livelli in conflitti armati e a 874 il numero di milizie irregolari e gruppi terroristici (fonte: warsintheworld.com).

Continuare a spendere

Nella classifica dei paesi protagonisti della corsa al riarmo, il primo posto spetta naturalmente agli Stati Uniti (334 milioni di abitanti) che, con gli 801 miliardi di dollari spesi nel 2021, rappresentano da soli il 38 per cento della spesa militare mondiale, quasi triplicando la Cina (popolazione di un miliardo e mezzo circa) che si attesta al secondo posto con il 14 per cento (293 miliardi di dollari).

Nel complesso i 30 paesi della Nato spendono il 55 per cento del totale globale (1.162 miliardi). La top ten vede a seguire nell’ordine India, Gran Bretagna, Russia, Francia, Germania, Giappone, Arabia Saudita, Corea del Sud.

Sùbito sotto l’Italia, undicesima nella classifica ma con una crescita tra le più significative rispetto al 2020: 4,6 percento (la media dell’Europa occidentale è del 3,1). Con le spese stimate dall’Osservatorio Mil€x per quest’anno, al termine del 2022 l’Italia registrerà un balzo in avanti quasi del 20 percento nei soli ultimi tre anni. Fa una certa impressione, poi, notare che nel Consiglio di sicurezza permanente dell’Onu siedano cinque stati tra i primi sei spenditori e che gli stessi siano tra i nove con arsenale nucleare.

Il mondo, quindi, corre all’impazzata verso arsenali sempre più sofisticati e costosi e alloca quote ingenti e in regolare ascesa per l’industria bellica. Lasciando da parte l’aspetto etico, rimane una domanda basilare: perché lo fanno e con quale risultato? Se ogni anno si decide singolarmente e collettivamente di alzare l’asticella della military expenditure, evidentemente nell’anno precedente ci si è convinti che il metodo funziona.

L’ostinazione di tanti stati nell’affermare la necessità di moltiplicare la spesa in armamenti dovrebbe avere per forza motivi solidi, connessi all’obiettivo di maggiore sicurezza e benessere diffuso.

Una corsa senza fine

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«E invece è il contrario – spiega Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal), Rete italiana per il disarmo (Rid) - e proprio la crisi ucraina dimostra che gli enormi apparati militari, in modo particolare quelli di cui si sono dotate Unione europea e Nato, sono inadeguati nella situazione di oggi anche nel caso in cui si voglia difendere un paese aggredito. L’Europa e l’occidente, con una forza militare spaventosa, si trovano nell’impossibilità di intervenire a meno di scatenare un conflitto mondiale. E allora, che senso ha continuare ad investire in apparati bellici? La sicurezza di un’area, dei singoli paesi e del mondo, non viene dagli apparati militari ma da un investimento nei meccanismi a disposizione delle istituzioni internazionali, che promuova, così come recita l’articolo 26 della Carta dell’Onu, “lo stabilimento ed il mantenimento della pace e della sicurezza col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti”. Credo che il modello europeo debba essere difensivo e non pieno zeppo di cacciabombardieri, portaerei, missili. L’Europa non deve imbarcarsi in un ulteriore esercito che andrebbe ad aggiungersi a quelli nazionali e alla Nato, ma rivedere l’architettura della difesa puntando a un modello fuori dalla Nato di tipo difensivo e non proiettivo».

Parallelamente a quella agli armamenti c’è invece la corsa a giustificarli se non a celebrarli. Tra i motivi principali addotti dai teorici del riarmo c’è la deterrenza. Se tutti siamo armati fino ai denti, si favorisce un equilibrio globale che garantisce pace e stabilità. Una teoria, però, che non trova conforto nell’attualità, nella scienza e tantomeno nella storia. «La deterrenza - taglia corto Caruso - è un concetto sopravvalutato. Si fonda sulla paura dell’altro e sull’assunto che durante la Guerra fredda abbia funzionato.

Peccato che in quel periodo i blocchi fossero due e che arsenali e obiettivi di entrambi fossero noti. Ora gli attori sono di più e, come ben spiegato dalla teoria dei giochi, la stabilità di una partita è molto diversa se i giocatori sono due o più di due. Ad esempio, se parliamo di nucleare, i giocatori sono nove, difficile mantenere un equilibrio.

In altre parole la deterrenza vale se abbiamo informazioni condivise e non mi sembra che sia questo il caso al momento. La vera strategia di sicurezza non è fondata sull’uso della forza ma su collaborazione e integrazione: se in Europa non ci facciamo più la guerra da ormai più di 70 anni è perché siamo un sistema integrato di nazioni. Il problema è che Russia e Cina, per citare due esempi molto attuali, non ne fanno parte».

Se non bastassero questi argomenti a smontare la teoria del «mi riarmo per assicurarmi pace e sicurezza», si potrebbe citare il dato che le spese militari sono cresciute del 90 per cento in due decenni e che i conflitti nel mondo, nello stesso periodo, sono aumentati e con sempre peggiori risultati in termini di allargamento delle aree di instabilità, di civili vittime o coinvolti in esodi di massa (82,5 milioni nel 2020 con trend in permanente salita, il 42,5 percento rappresentato da bambini, alcuni dei quali soli) e di conseguenze a lungo termine. Che l’equilibrio sia precario anche in zone che hanno goduto di pace per lunghissimi periodi, come l’Europa, ce lo dimostra la crisi ucraina.

L’elenco degli esempi di ammassamenti di armi sfociati in drammatici fallimenti è talmente lungo da apparire imbarazzante. Basti citare il caso dell’Afghanistan, dove la sola America ha scaricato il 74 percento delle armi accumulate in quel paese (con punte, tra il 2016 e il 2020, del 90 percento) spendendo oltre 2 trilioni di dollari in vent’anni.

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