L’hanno chiamata la “Chernobyl dell’Amazzonia”. È l’area del Lago Agrio, in territorio dell’Ecuador, divenuta tristemente famosa per gli altissimi livelli di inquinamento provocati dallo sfruttamento petrolifero condotto sin dagli anni Sessanta dalla Texaco, nei decenni successivi rinominata Chevron. La multinazionale statunitense ha devastato un paradiso naturale, rilasciando nei corsi d’acqua della regione l’equivalente di 80 volte il petrolio finito in mare nel 2010 in occasione del disastro della Deep Water Horizon.

«Nelle foreste pluviali del nord dell’Ecuador, in maniera deliberata, sono stati dispersi milioni di galloni di rifiuti tossici e cancerogeni derivanti dall’estrazione del petrolio. Un avvelenamento industriale di massa che nel corso degli anni, in maniera lenta e quasi impercettibile, ha finito per uccidere migliaia di persone di cancro e altre malattie. Così è stata decimata una popolazione che aveva vissuto in modo prospero per migliaia di anni nell’area, almeno prima dell’arrivo della Chevron». A parlare è Steven Donziger, che raggiungiamo via Zoom nella sua casa di New York.

Donziger ha iniziato a seguire il caso già nel lontano 1993. Da allora la sua è stata una presenza costante nell'Amazzonia ecuadoriana. Entrato a far parte del team legale che ha chiamato la Chevron a rispondere delle sue “malefatte”, ha proseguito il lavoro nel Paese latino americano dopo che la oil major ha accettato di essere processata lì.

«Il procedimento è durato dal 2001 al 2011, essenzialmente perché la compagnia statunitense ha provato a sabotare il processo. Ma alla fine il nostro team legale, di cui facevo parte insieme a numerosi altri avvocati, ha ottenuto una storica vittoria, dal momento che la Chevron fu condannata a pagare 9,5 miliardi di dollari di risarcimento alle popolazioni indigene, affinché si procedesse con tutte le bonifiche necessarie».

Senza fine

Un happy ending a una storia segnata da lutti e sofferenze? Purtroppo no, perché sin da subito la multinazionale a stelle e strisce si rifiutò di “pagare il conto”, contestando la regolarità del giudizio, mentre per l’avvocato paladino delle popolazioni indigene fu l’inizio di un vero e proprio calvario. «La Chevron ha messo sotto contratto 60 studi legali, ha impiegato oltre 200 avvocati, spendendo una cifra che si stima possa arrivare a tre miliardi di dollari per distruggere la mia vita e quella degli altri avvocati, anche se il loro obiettivo principale sono stato io».

A New York è iniziata un’azione legale nei confronti di Donzinger, con una richiesta record di risarcimento: 60 miliardi di dollari.

«Sono riusciti a ottenere che un giudice americano mi ordinasse di dare a Chevron il mio computer perché in Ecuador stavo facendo qualcosa di illegale, cosa ovviamente non vera. Mi sono rifiutato di consegnare il computer, perché avevo il dovere di proteggere la confidenzialità delle informazioni ricevute dai miei clienti».

L’avvocato presentò appello contro questa decisione e il giudice, che secondo Donziger aveva dei «forti legami con la Chevron», lo accusò di oltraggio alla corte solo per il fatto di aver inoltrato un ricorso su un procedimento di natura civile.

«Una cosa scioccante e che non ha precedenti nella storia del mio paese, anche perché l’accusa si rifiutò di perseguirmi, e quindi il giudice nominò uno studio legale privato al posto della pubblica accusa in nome del governo statunitense. Lo studio legale si chiamava Seward & Kissel e aveva tra i suoi clienti anche la Chevron. Essenzialmente sono stato perseguito per un crimine che non era tale direttamente dalla Chevron», l’amara riflessione di Donziger.

Il giudice lo ha messo agli arresti domiciliari prima dell’inizio del processo, nonostante l’accusa fosse comunque per il crimine minore di oltraggio alla corte. «Ho finito per rimanere agli arresti domiciliari a casa mia per quasi tre anni, trascorrendo anche 45 giorni in una prigione federale vera e propria. Per il reato per cui sono stato accusato la condanna più lunga mai emessa prevedeva 90 giorni di reclusione».

Il sostegno internazionale

Quello nei confronti di Donziger appare un accanimento contro un professionista che ha “osato” danneggiare una delle potenze economiche statunitensi, creando un precedente fin troppo pericoloso agli occhi degli alti papaveri delle oil corporation. L’unico lato positivo di questa infinita e inquietante saga legale, sostiene Steven, è che così tante persone hanno sposato e sostenuto non solo lui e la sua causa, ma soprattutto quella delle comunità indigene dell’Ecuador.

Nel corso degli ultimi anni ben 68 Premi Nobel hanno chiesto che Donziger fosse liberato e che si indagasse sull’accusa a suo carico, mentre più di cento organizzazioni della società civile globale, tra cui Amnesty International e Amazon Watch, hanno chiesto al Presidente Biden di graziarlo. Anche numerosi membri del Parlamento europeo hanno definito questo caso un grave problema per i diritti umani e hanno chiesto al Congresso degli Stati Uniti di indagare. L’ambasciatore statunitense all’Onu per i crimini di guerra Stephen Rapp, insieme a un team che ha monitorato il procedimento penale per oltraggio alla corte contro Donziger, ha scoperto che i diritti umani di Donziger sono stati ripetutamente violati da una corte che ha mostrato pregiudizi giudiziari.

Donzinger è da poco più di un mese finalmente libero, ma non sembra intenzionato ad arretrare di un passo nella sua lotta contro gli abusi delle multinazionali petrolifere.

«Queste oil major sono così ricche e potenti perché spostano l’onere dell’inquinamento che causano sulle spalle di alcune delle persone più povere del Pianeta. Questo è quanto accaduto in Ecuador. Hanno estratto il petrolio, ci hanno fatto lauti profitti e si sono rifiutati di pagare per i danni provocati, essenzialmente perché avevano ideato un sistema che permetteva loro di inquinare sapendo di rischiare poco, perché i nostri governi sono molto deboli rispetto all’industria fossile. Così hanno calcolato che era più economico uccidere delle persone inquinando la loro acqua, la loro terra, il loro cibo e la loro aria che estrarre petrolio senza infliggere danni così pesanti all’ecosistema».

E così quando si sono ritrovati una causa legale per loro è stato uno shock, quasi che le vittime fossero loro. «Questo perché si ritenevano legittimate a estrarre petrolio, inquinare e spargere rifiuti sul territorio a loro piacimento. È chiaro che le aziende fossili hanno un atteggiamento razzista nei confronti delle comunità indigene. Per loro lì dove estraevano il petrolio c’era la foresta e basta, non c’era nessuno, sebbene ci fossero migliaia di persone che prima che arrivasse la corsa al petrolio vivevano bene, con tutto quello di cui avevano bisogno».

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