Scomparsi nel nulla della foresta amazzonica. Se ne parla in tutto il mondo da domenica scorsa, da quando cioè il giornalista britannico Dom Phillips e attivista brasiliano Bruno Pereira non sono tornati da una missione in una terra indigena. Le speranze di ritrovarli vivi sono ormai minime.

Non è zona di rapimenti e nonostante le apparenze non è nemmeno facile perdersi laggiù. I percorsi lungo i fiumi amazzonici sono quasi obbligati, Pereira conosce bene quei luoghi e se si rompe il motore della lancia sa come muoversi per farsi ritrovare nel giro di un paio di giorni. Animali feroci? Neanche quelli. Questi posti però possono essere trappole mortali. Sono (scarsamente) abitati, più da gentaglia che non vuole ficcanaso o leggi da rispettare che da popolazioni che ti accolgono a braccia aperte. 

Un giornalista che viene una volta nella vita deve avere una certa dose di coraggio, certo, ma chi ci lavora sempre e crede a una missione rasenta l’eroismo. Infatti alcune celebri vittime della foresta brasiliana sono sui libri di storia: Chico Mendes, suor Dorothy Stang. Più centinaia di caduti meno conosciuti.

“Dove sono Dom e Bruno?”. Migliaia di messaggi rimbalzano sulla rete e i social, cartelloni sono esposti a Londra e Los Angeles, dove si è svolto il summit delle Americhe. Persino a Joe Biden è stato infilato nel promemoria giovedì scorso: ne chieda conto a Bolsonaro nel bilaterale, presidente. Anche noi qui li chiameremo con i nomi di battesimo, Dom e Bruno.

Le parole di Bolsonaro

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Di tutte le assurdità uscite dalla bocca di Jair Bolsonaro negli ultimi anni, poche sono paragonabili alle parole pronunciate in questi giorni su Dom e Bruno. «Quando ti metti in un’avventura, sai cosa ti può capitare», ha commentato il presidente brasiliano. Ricorda il «se l’è andata a cercare» di Giulio Andreotti dopo l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese.

Oppure le motivazioni delle assoluzioni per stupro, la colpa è sempre della vittima. Secondo una metafora usurata, l’Amazzonia è un far west, una terra senza legge, e lo è certamente da prima di Bolsonaro. Però è da mezzo secolo che non c’era in Brasile qualcuno al governo che sta più dalla parte dei fuorilegge, giustificando gli incursori da fuori, i cercatori d’oro e quelli di legname pregiato, o chi brucia la foresta per aprire pascoli e colture.

E ancora, rifiutando di riconoscere i diritti delle popolazioni originarie e la loro fragilità, smantellando come ha fatto il suo governo gran parte dei sistemi di controllo e repressione alle illegalità. Parliamo di mezzo secolo, perché prima di Bolsonaro c’erano stati i governi militari degli anni Sessanta e Settanta a incentivare l'invasione dell’Amazzonia, l’apertura delle strade e l’emarginazione degli indios. Ma almeno all’epoca c’era l’ideale della nuova frontiera, della colonizzazione. E la foresta era intatta sin dalla preistoria. Oggi sappiamo tutti quale sia la posta in gioco per l'umanità e il suo futuro.

Vale do Javarì

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La tragedia di Dom e Bruno è emblematica, così come la terra dove è avvenuta racchiude tutte le questioni legate alla grande foresta. Per questo il reporter britannico aveva scelto la Vale do Javarì per un capitolo fondamentale del libro che stava scrivendo.

Siamo nel cuore della grande foresta, dove le frontiere di Brasile, Colombia e Perù si incrociano sulla mappa, ma non sono segnate da nulla. La fetta brasiliana è un territorio indigeno esclusivo e protetto dal 2001, grande quanto l’Austria.

Significa che nessuna attività fuori dai bisogni delle tribù indigene può essere svolta. La regione ha in più una caratteristica unica: si ritiene che ospiti al suo interno il maggior numero di indios isolati al mondo. Quelli che non vogliono saperne del mondo esterno.

La sezione “indios isolados”, o di contatto recente, è la più delicata della Funai, l’ente federale brasiliano che si occupa delle popolazioni native. Di solito ci lavorano personaggi visionari come Bruno Pereira, per nulla disposti a compromessi.

Litigano spesso con le autorità centrali. Succedeva anche all’epoca di Luiz Lula, quando era presidente, che arrivò a rimuovere dalla guida della Funai il leggendario Sydney Possuelo, l’uomo che aveva fatto capire al Brasile la regola primaria: gli isolati sanno che noi esistiamo ma non vogliono saperne della nostra civiltà, quindi vanno lasciati in pace e protetti.

Un zona di risorse

Peccato che più sono isolati gli indios, più sono remote e incontaminate le loro terre e quindi attraggono predatori in cerca di facili ricchezze. C’è oro nel sottosuolo, crescono qui gli ultimi giganti di mogano, i fiumi sono ricchi di pesci pregiati. C’è pure un business di pescetti da acquario e tartarughe uniche al mondo, il cui traffico Pereira aveva aiutato a stroncare anni fa. 

E poi, il narcotraffico. Di qui passa la coca che arriva dal Perù per rifornire il mercato brasiliano o essere spedita in Europa. È la rotta alternativa a quella colombiana, che serve soprattutto gli Stati Uniti. Sorvegliare un territorio di queste dimensioni è una impresa titanica quando ti vuoi impegnare a farlo, figurati quando non ci credi.

Pereira era stato licenziato dalla Funai subito dopo l’arrivo degli uomini di Bolsonaro, il cui obiettivo era ridurre risorse e lesinare mezzi anche qui nella Vale do Javarì. Si era trasformato in un attivista a tempo pieno, aiutando ong e giornalisti. È stato minacciato di morte varie volte, l’ultima qualche giorno fa. Con la coca nella partita, la posta in gioco si alza parecchio, le connivenze sono ovunque.

Soccorsi ridicoli

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Il patetico spettacolo dei soccorsi dopo la sparizione di Dom e Bruno la dice lunga. Ritardi, burocrazia, palleggio di responsabilità. Otto uomini in uniforme, ognuno rappresentando un pezzetto della presunta “legge”, si sono presentati alla stampa tre giorni dopo senza dire praticamente nulla.

Al quarto giorno la notizia di macchie di sangue trovate sul fondo di una piroga di un sospettato, ma magari sono di pesce, chissà quando il risultato degli esami.

L’ipotesi che i due siano stati eliminati in una imboscata è purtroppo probabile. Magari non hanno il coraggio di farlo i pescatori di frodo, o gli indios collaborazionisti (sì, ci sono) che aiutano a far sparire il legname pregiato, ma per i narcos abbattere un ostacolo è routine.

Testimoni hanno raccontato di alcune imprudenze dei due, l’ultimo giorno della loro missione. Dom avrebbe fotografato uomini armati, Bruno ha rifiutato la scorta che gli era stata offerta dagli indios per risalire il fiume verso la città.

Non è vero invece, come ha detto il governo, che i due si erano recati nella terra indigena non autorizzati. Tutti i giornalisti che hanno svolto un lavoro come quello di Dom sanno che non è possibile. Senza autorizzazione e non accompagnati non ti avvicini nemmeno.

Dom Phillips è un bravo reporter e una gran bella persona. Era arrivato in Brasile “da grande”, all’epoca scriveva di musica e davanti a una bistecca in un ristorante di San Paolo mi aveva raccontato 15 anni fa di volersi occupare d’altro. E nulla prende l’anima di noi stranieri come l’Amazzonia.

Dom aveva poi affrontato il momento peggiore per i giornalisti freelance, senza un contratto fisso: il crollo delle retribuzioni e dei rimborsi spese per i viaggi. Nonostante lavorasse per una testata prestigiosa come il Guardian, con la moglie Alessandra avevano deciso qualche anno fa di trasferirsi a Salvador, dove la vita costa la metà rispetto a San Paolo e Rio.

Dom aveva deciso di concentrarsi sul suo libro, sospendendo le collaborazioni con i giornali. La moglie ha raccontato che avrebbe dovuto consegnare in questi giorni all’editore un nuovo capitolo, e che i due dipendono moltissimo da questo denaro. Titolo: Come salvare l'Amazzonia. Bruno è sposato, tre figli, due molto piccoli. Su Internet è stata lanciata una raccolta di fondi per le due famiglie, in Brasile e negli Stati Uniti. Nella remota speranza che possano non servire.

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