La guerra in Ucraina ha scosso l’incontro episcopale sul Mediterraneo nel convento fiorentino di Santa Maria Novella. Al G30 dei vescovi, il grande assente è sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, leader della chiesa greco-cattolica ucraina, che ha scelto di restare a Kiev per essere vicino al suo popolo.

«Si tratta di un vero attacco all’Europa, alla sicurezza, al futuro dell’intero continente europeo», ha tuonato nella lettera ieri letta dal cardinale Gualtiero Bassetti, poi intercettata dal presidente dei vescovi dell’Ue, Jean-Claude Hollerich: quando a Bruxelles veniva convocata la riunione straordinaria del Consiglio europeo sulle sanzioni da imporre alla Russia, il porporato gesuita ha ribadito il suo appello «alle autorità russe affinché si astengano da ulteriori azioni ostili che infliggerebbero ancora più sofferenze e violerebbero i principi del diritto internazionale».

L’ultima parola del papa risale a mercoledì scorso, quando ha indetto un digiuno per la pace mercoledì prossimo, appellandosi «a quanti hanno responsabilità politica perché facciano un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è il Dio della pace e non della guerra: il padre di tutti, non solo di qualcuno, che ci vuole fratelli e non nemici».

La dottrina Francesco

Alcuni in Vaticano parlano di eccessiva prudenza da parte del papa. Lo stesso Shevchuk si sarebbe aspettato un viaggio simbolico del pontefice a Kiev nelle scorse settimane per stemperare la tensione con la Russia.

Eppure Francesco ha preferito agire con una modalità d’intervento peculiare, teorizzata già nel 2015 dal cardinale Pietro Parolin in una lectio magistralis presso l’Università Gregoriana: la preghiera da una parte, la costruzione della pace dall’altra.

È la dottrina Francesco, spiegata da lui stesso in un’intervista con il sociologo Dominique Wolton: «Che deve fare allora la chiesa? Mettersi d’accordo con l’uno o con l’altro? Questa sarebbe la tentazione che rimanderebbe l’immagine di una chiesa imperialista, che non è la chiesa di Gesù Cristo, del servizio».

Francesco, però, toglie alla Santa sede il suo ruolo diplomatico internazionale, deludendo di fatto quell’opinione pubblica che, memore di precedenti come il disgelo statunitense di Cuba o il bacio ai piedi dei leader sud sudanesi, vedeva in lui l’unico pompiere in grado di spegnere il fuoco della guerra ora in atto.

I precedenti e Giovanni Paolo II

Sono almeno due le occasioni in cui Francesco ha, invece, preso posizioni nette. Nel 2013 era stato eletto pontefice da poco quando mediò per scongiurare l’intervento armato del presidente Usa, Barack Obama, in Siria.

Per abbassare le tensioni, aveva scritto una lunga lettera a Vladimir Putin auspicando che «i leader degli Stati del G20 non rimangano inerti di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze».

Due anni dopo ha liquidato le preoccupazioni dei servizi segreti francesi che non avrebbero potuto garantire la sicurezza adeguata al suo viaggio nella Repubblica Centrafricana, decidendo comunque di partire, e riuscendo solo in seguito a strappare una tregua tra le fazioni islamica e cristiana di Bangui.

Prima di lui, gesti profetici dal peso geopolitico erano stati compiuti da papa Giovanni Paolo II. In un mondo diviso dalla cortina di ferro, nel 1979 Wojtyła ha superato i niet diplomatici recandosi in Polonia e innescando un movimento confluito nella costituzione di Solidarność. Nel 2003 ha tentato frenare con fermezza i piani della «guerra preventiva» di George Bush in Iraq, inviando il cardinale Roger Etchegaray a colloquio con Saddam Hussein e il cardinale Pio Laghi, storico amico della famiglia Bush, a trattare con il presidente Usa.

Oggi Francesco preferisce scegliere una terza via. Un tratto paradossale per il pontefice che ha reso prioritaria nella sua agenda l’ostilità alla guerra e agli armamenti. 

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