La campagna per le elezioni presidenziali di aprile in Francia è già iniziata, come da tradizione, anche se ufficialmente partirà da febbraio e lo scenario si presenta variegato e surriscaldato nonostante il gelido vento della Senna e gli intralci posti dalla pandemia dilagante. 

I partiti e i leader in competizione ipotizzano già le alleanze, mobilitano sodali e apparati, battono il territorio, organizzano eventi e alcuni di loro hanno già dichiarato ufficialmente le candidature. Lo scenario è complicato con protagonisti, comprimari, semplici comparse. E i problemi cruciali sono diversi: dalla sicurezza al potere d’acquisto, al rapporto con l’Europa, al terrorismo, all’emergenza della pandemia.

Solo la sinistra, il Parti socialiste innanzitutto, procede in ordine sparso, con piccole fiammate di orgoglio, ma nulla di più, confusa come un esercito dopo una battaglia estenuante, in effetti, sbrindellata e logorata da oltre vent’anni.

Il presidente in carica, Emmanuel Macron, non è ancora, astutamente, candidato ufficiale, secondo la prassi di alcuni suoi predecessori, ma fra le polemiche e i rimbrotti dell’opposizione e il mantello protettivo del partito di maggioranza, La République en  marche (Lrem), è già sceso nell’agone predisponendo la sua strategia, cambiando la sua modalità comunicativa, la postura, il linguaggio  e disegnando il suo programma ambizioso per il prossimo quinquennato. 

Le destre

La destra la fa al momento da padrona e si presenta come un arcipelago agguerrito e in mutamento, tanto che è opportuno parlare di destre, al plurale, sulla scia di una tradizione antica proprio, per paradosso, nella patria dei grandi sommovimenti rivoluzionari.

La destra moderata, quella dei Les républicains, il partito di Nicolas Sarkozy e prima di Jacques Chirac, con altro nome, è uscita presto in campo aperto. Ha organizzato e svolto le primarie interne nel proprio congresso del 2021, designando come candidata alle presidenziali Valérie Pécresse, presidente dal 2015 della regione Île-de-France, che ha sconfitto al secondo turno con sorpresa il suo diretto avversario Éric Ciotti, anche lui un “présidentiable”, deputato delle Alpi marittime, segretario nazionale nel partito per la Sicurezza, fino a poco prima certo di vincere.

Un’incognita non prevista questa che ha rimescolato le carte. La neo candidata si è mostrata subito determinata a sfidare Macron e soprattutto incline a impadronirsi di alcune tematiche della destra estrema, soprattutto  sul tema della sicurezza, rappresentata storicamente dal Rassemblement national (Rn) di Marine Le Pen.

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Sicurezza, ordine, autorità

Quale è il suo linguaggio? Appena eletta ha disegnato il perimetro dentro il quale si muoverà con affermazioni che non lasciano dubbi sulla direzione della destra tradizionale che inclina verso la destra estrema: «La destra sta tornando per restaurare la fierezza della Francia io ho una sola passione: il fare. Macron vuole piacere. La Francia si sente impotente di fronte al separatismo islamista».

Infine ha fatto appello al principio di «autorità». È europeista sì, ma in maniera blanda e critica. Inoltre si è scagliata contro la droga in maniera dura con un linguaggio “grossier” (rozzo ndr) che non è certo consono al dire politico, affermando che vuole lottare contro i delinquenti con sanzioni che «les emmerdent plus qu’ils emmerdent la société» («li farà incazzare più di quanto loro fanno incazzare la società»). Quindi sicurezza, ordine, autorità sono le parole-chiave di Valérie Pécresse.

French far-right presidential candidate Marine Le Pen, talks to the media during a visit of an offshore project of wind mills to produce electricity, in Erquy, western France, Friday, Jan. 14, 2022. (AP Photo/ Jeremias Gonzalez)

Marine Le Pen

Marine Le Pen è lo zoccolo duro dell’estrema destra. Leader del Rassemblement national, erede del Front national del padre Jean-Marie, posizionata su una linea di continuità/discontinuità che ne ha stabilizzato e “dédiabolisé” l’immagine, non è nuova alla sfida delle presidenziali.

Seguendo le orme paterne, più volte candidato all’Eliseo e nel 2012 al ballottaggio contro Chirac, ha già sfidato Macron nel 2017. Ha un cospicuo consenso stabile e molta incidenza nei ceti più popolari, avendo ereditato anche quella parte di elettorato che molti anni fa ha fatto parlare di “gaucho-lepénisme” (cioè quella parte dell’elettorato che, pur essendo di sinistra, votava occasionalmente o sistematicamente per il Front nationale).

Ha “ripulito” il partito degli estremismi intollerabili, si proclama «républicaine» e per questo anti islamica e contro l’immigrazione. Respinge qualunque accusa di xenofobia dichiarandosi invece una «patriote». Usa un linguaggio che fa leva sul “pathos” e non sul “logos”, secondo uno stile tipicamente populista, per pungere l’istinto e non la mente degli elettori. 

Prende in prestito da vari ambiti e linguaggi, è contro il capitalismo e la “mondialisation” e non disdegna di riprendere il repertorio storico della sinistra quando afferma che gli immigrati sono «l’armée de réserve du Capital» («l’esercito di riserva del capitale»).

Apre anche alla questione femminile ma sempre all’interno di una gerarchia di ruoli e funzioni, nel privato come nel pubblico. Insomma, fra continuità e mutamento, sembrava fino a qualche mese fa la diretta antagonista di Emmanuel Macron, la più temibile in questa prossima competizione elettorale.

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Éric Zemmour

Ora le cose sembrano cambiate per due ragioni principali: l’arrivo di Valérie Pécresse e il fragoroso ingresso nella campagna elettorale di Éric Zemmour, ex giornalista ora sceso in politica, esponente di una destra estrema e rabbiosa che, lancia in resta, vuole salvare la Francia da quello che egli definisce il «grand remplacement» (la “grande sostituzione” ndr) a opera degli immigrati, immagine forte che induce paura e insicurezza e richiede un salvatore.

Lo spericolato Zemmour può sembrare una scheggia impazzita, un prodotto di cattivo folklore, ma si è imposto nel dibattito politico radicalizzandolo soprattutto sul tema dell’immigrazione e ha ottenuto, finora con successo, due risultati: ha diviso la destra, con alcuni esponenti e parlamentari dei Répubicains che lo sostengono per le ragioni più svariate; inoltre promette di pescare nell’elettorato di Le Pen scavalcandola a destra.

Ha commesso qualche errore e il suo evento spettacolare di quasi un mese fa a Villepinte, ha registrato episodi di violenza mai raggiunta in una campagna elettorale a opera degli Zouaves Paris, gruppo di picchiatori senza ideologia o idee presentabili che accorre alla stregua di mercenari per sostenerlo. È stata aperta un’inchiesta e alcuni dei suoi deliranti sostenitori sono stati arrestati. 

Zemmour ha però un bacino elettorale non piccolo, variegato, da cui trae appoggio e consenso: alcuni giovani prima impegnati nella destra dei Républicains e ora desiderosi di una “ventata di novità”; alcuni esponenti non di primo piano del Rn e anche alcuni consiglieri regionali e qualche nostalgico del vecchio Front national, tutti scontenti della normalizzazione del partito avviata da Le Pen.

Non manca a Zemmour l’appoggio di alcune riviste di estrema destra che diffondono la teoria xenofoba del «grand remplacement» e quello di qualche industriale nostalgico come Vincent Bolloré, a capo di un impero mediatico che torna sempre utile in politica, che vede con simpatia la sua idea di un «retour des chefs» («il ritorno dei capi») in ogni settore della società, soprattutto in politica e nel mondo dell’impresa. Da ultimo il suo partito Reconquête, che raccoglie i delusi, personaggi senza spazio che sperano di tornare sulla scena in questa ondata di nazionalismo sfrenato e di rivincita.

Uno studioso come K.W. Deutsch, parlava già alla fine degli anni Sessanta del 1900 nel suo saggio I nervi del potere, della centralità del linguaggio e della cibernetica nell’ambito della politica e della lotta per il potere. Il linguaggio e tutti gli strumenti della tecnologia al suo servizio, come i nervi nel corpo umano, permeano di sé l’agire politico di leader e partiti, mobilitano, classificano, ordinano, unificano o separano a seconda del contesto, della posta in gioco, degli attori coinvolti.

Questo vale, tanto più, in una campagna elettorale come quella delle presidenziali francesi dove le forze in campo cercano, ciascuna a modo suo, di trovare la propria mossa del cavallo. Quella vincente.

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