Parlare di “primavera araba” al tramonto del 2022, con l’ultimo barlume di speranza, quello tunisino, in progressivo affievolimento a seguito del golpe bianco del presidente Kaïs Saïed – che ha desautorato il parlamento, accentrato su di sé tutti i poteri e promulgato una nuova Costituzione a sua immagine e somiglianza – suona definitivamente come un amaro anacronismo. Il sogno di libertà, dignità e stato di diritto che aveva acceso gli animi globali a partire da quel lontano 2010 in cui Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid, infiammando non solo la sua vita priva di speranza, ma la rabbia di tutta la regione a cavallo tra medio oriente e nord Africa, sembra ormai sepolto sotto il peso di più o meno brutali restaurazioni e conflitti senza fine.

Per alcune persone tuttavia il risveglio alla realtà è arrivato molto prima, per non dire che il sogno è morto prima di iniziare. Persone ai margini della società le cui istanze non hanno trovato posto neanche nel nuovo corso e per le quali, gattopardescamente, tutto (o molto) è rimasto drammaticamente uguale in mezzo a rivoluzioni e controrivoluzioni. Mi riferisco alle donne e agli uomini presi di mira dalla società, dal diritto e dalle forze politiche di ogni ordine e grado a causa del loro orientamento sessuale o delle loro visioni non conformi sulla religione e i suoi dogmi.

Ho seguito il calvario di alcuni di loro in Egitto e Tunisia, nell’ambito delle mie ricerche confluite in un libro di recente pubblicazione incentrato su islam, diritto costituzionale e libertà individuali. La ragione di questa scelta d’indagine è ben illustrata dalle parole del ministro egiziano degli Affari religiosi Mohamed Mokhtar Gomaa, secondo cui «occorre contrastare l’ateismo, il nichilismo, l’omosessualità e la depravazione morale così come contrastiamo estremismo e terrorismo».

“Volontà disgregratice”

Ciò che in effetti colpisce maggiormente nel trattamento delle minoranze lgbt e dei cosiddetti “liberi pensatori” (atei, apostati, blasfemi, umanisti) egiziani e tunisini è il fatto che entrambe le categorie si trovano spesso accomunate nella riprovazione sociale e nella persecuzione giuridica come due facce della stessa medaglia, portatrici di una simile minaccia all’etica religiosa e al buon costume della collettività. Non è un caso, quindi, che sia gli omosessuali che gli atei che ho intervistato abbiano fatto riferimento a un “coming out” che li ha esposti a simili ostracismi e simili ostilità e violenze in famiglia, nella loro cerchia sociale e sul lavoro, e talvolta ad analoghe traversie giuridiche.

Questa triste comunanza di sorti trova infatti conferma nelle condanne inferte a omosessuali e liberi pensatori in tribunale, spesso basate sugli stessi riferimenti testuali e concettuali. La religione non è un fattore secondario in questo scenario, agendo come categoria metagiuridica con la quale vengono riempite le clausole generali ben note anche al diritto occidentale e internazionale (ordine pubblico, moralità pubblica, buoncostume, ecc.).

Un’accusa ricorrente, in particolare, è quella di fitna, concetto socio religioso che affonda le sue radici nello scisma tra sunniti e sciiti e che denota una volontà disgregatrice, uno stato di ribellione contro la legge di Dio per propagare i semi della discordia all’interno della società. Di fitna sono stati così accusati in giudizio i tunisini Jabeur Mejri e Ghazi Béji, colpevoli di aver irriso Maometto sulle loro pagine social; Nadia El-Fani, regista del film Ni Allah ni maître (“Né Allah né padrone”, il cui titolo è stato poi cambiato in Laïcité Inch’Allah proprio a causa delle pressioni sociali e legali), rea di «aver urtato i sentimenti dei credenti» per aver pubblicamente dichiarato il suo ateismo; e tutti gli artisti e intellettuali egiziani condannati sulla base del famigerato articolo 98(f) del codice penale che criminalizza esplicitamente la blasfemia facendo tra l’altro riferimento alla propagazione della fitna.

Anche se non si ha una norma altrettanto esplicita nel caso tunisino, l’interpretazione dell’offesa alla morale pubblica è intesa da una giurisprudenza costante come equivalente a un «attacco a ciò che il popolo ritiene sacro», laddove il popolo è metonimia che denota la maggioranza, come espressamente sancito dal giudice nei casi di Mejri e Béji.

Da ciò discende l’idea che, se a un post su Facebook, a un libro o a un film “blasfemo” seguono disordini e violenze, la colpa non è di coloro che non sono in grado di contenere la propria intolleranza, ma di chi li ha “provocati” per aver semplicemente manifestato le proprie convinzioni (ir)religiose o la critica personale a determinati dogmi.

Attraverso questa inversione capziosa, la compressione della libertà di coscienza, credo ed espressione assurge a necessità fondamentale dell’ordine pubblico. Un ragionamento da vis grata puellae che purtroppo si riscontra anche nelle corti occidentali.

Blasfemi ed eruditi teologi

Occorre qui soffermarsi su un punto chiave, cruciale tra l’altro per capire perché l’interpretazione della sharia e in generale dei dogmi islamici fatica a evolvere e ad acquisire una sensibilità moderna: tra coloro che cadono sotto la scure del takfir, l’accusa di apostasia, dentro o fuori dalle aule giudiziarie, talvolta con epiloghi fatali, non vi sono solo rumorosi e irriverenti blasfemi (non che, a parere di chi scrive, la religione diversamente da altri sistemi ideologici debba essere immune da attacco e irrisione, ma questa è un’altra storia), ma anche eruditi teologi la cui colpa è adottare un approccio non ortodosso all’interpretazione del Corano e della Sunna.

È rimasto nelle pagine nere della storia giuridica egiziana il caso di Nasr Hamid Abu Zayd, accademico condannato per apostasia sulla base di un vulnus giuridico che ha permesso ai giudici di applicare direttamente la sharia e imporgli il divorzio d’ufficio dalla moglie musulmana. Il suo crimine: aver adottato un approccio scientifico all’interpretazione delle scritture.

Il suo destino, seppur nell’esilio seguito alla condanna, è stato roseo a paragone di quanto accaduto al sudanese Muhammad Taha, uno dei più importanti riformatori islamici dei nostri tempi, giustiziato per apostasia dal regime islamista di Numeyri; o all’egiziano Farag Foda, freddato da terroristi islamisti nel suo ufficio a seguito di una fatwa della prestigiosa università islamica Al-Azhar che lo dichiarava apostata a causa della sua difesa della laicità e delle sue accuse contro l’ideologia islamista.

È triste constatare come Al-Azhar, vista nell’immaginario comune e nella retorica interreligiosa come un bastione di moderatismo, sia sempre stata a fianco dei Fratelli musulmani nel denunciare gli “apostati” e pretendere dallo stato aspre condanne (talvolta attuate da zelanti assassini), in una logica da santa inquisizione-braccio secolare ampiamente documentata dal giurista egiziano Moataz El Fegiery.

(AP Photo/Mosa'ab Elshamy)

Tra “devianza” sessuale e religiosa

Anche le sentenze per il crimine di omosessualità seguono spesso una simile logica religiosa; del resto, tra i significati di fitna vi è anche quello di disgregazione sociale provocata da immoralità e vizio. Nel celebre caso della retata nel night club sul Nilo “Queen boat” nel 2001, in cui 53 uomini sono stati arrestati con l’accusa di «dissolutezza» (unico riferimento indiretto all’omosessualità presente nel codice penale egiziano, con gravi ripercussioni sul principio di tassatività), il tribunale ha fatto ricorso al succitato articolo 98(f), con l’accusa di fitna e attacco alla religione.

A parere di autorevoli osservatori come Jeffrey Redding e Baudouin Dupret, l’accusa della deviazione religiosa è qui addirittura preminente rispetto a quella di deviazione sessuale, con la corte esplicitamente impegnata in una sorta di “esorcismo giuridico” contro un culto satanico volto a soppiantare l’islam.

Anche in seguito le corti egiziane hanno continuato a infarcire le loro sentenze contro l’omosessualità con riferimenti religiosi al Corano e alla Sunna, come documentato dalla Egyptian initiative for personal rights. Del resto, l’Egitto è da sempre uno dei più attivi persecutori della comunità lgbt.

Talvolta la disparità tra il “crimine” e la pena ha assunto connotati grotteschi, come nel caso di Sarah Hegazi, attivista egiziana lesbica incarcerata, torturata e violentata per la colpa capitale di aver esibito una bandiera arcobaleno nel corso di un concerto, in seguito suicidatasi in esilio per l’impossibilità di superare il trauma.

Addirittura il mero difendere i diritti lgbt va incontro alla condanna per “diffusione di immoralità” e “attacco alla religione”, come accaduto all’attivista egiziano Sherif Gaber, accusato inoltre di aver diffuso pubblicamente il proprio ateismo, e qui troviamo un’altra cerniera tra “devianza” sessuale e religiosa. In un caso analogo, quello dell’attivista ateo, già cristiano, Alber Saber, la corte che lo condanna per i suoi «errori» sulla religione e la sua «propagazione dell’ateismo», tali da costituire una minaccia all’ordine pubblico, non esita a definirsi nientemeno che un «santuario» la cui missione è «proteggere le sante religioni da insulti e menzogne».

Il giudizio in Tunisia

La Tunisia, benché decisamente più laica sia socialmente che giuridicamente, conosce dinamiche simili: in quei casi in cui gli atti omosessuali non vengono provati (il che, tra uomini, sovente accade attraverso il trattamento inumano, oltre che scientificamente inattendibile, dell’“esame anale”), i giudici ricorrono ad altri capi d’imputazione, che sono gli stessi addossati ai liberi pensatori: attacco al buoncostume e alla moralità pubblica. Peraltro, entrambi i crimini sono raccolti sotto la medesima rubrica penale delle “offese contro la morale” – morale spesso interpretata in chiave religiosa: non è pertanto una sorpresa che gli imputati che si trovano di fronte a giudici conservatori e islamisti ricevano sentenza più severe, come testimoniato dall’avvocato Mounir Baatour, presidente dell’organizzazione pro-lgbt Shams, che ha difeso molti imputati per omosessualità prima di esser costretto a riparare in Francia inseguito da accuse di blasfemia investigate addirittura dalla sezione antiterrorismo della procura di Tunisi.

Proprio in relazione alle vicende di Shams, d’altra parte, dobbiamo registrare dei segnali inusitatamente positivi: trascinata più volte in tribunale dal governo e dal Consiglio nazionale degli Imam, e a rischio di scioglimento per la minaccia arrecata «all’Islam e ai valori sociali» della Tunisia, l’ong ha ripetutamente prevalso. L’ultima sentenza, del 2019, è particolarmente rilevante, in quanto la Corte d’appello di Tunisi fa riferimento a svariate convenzioni internazionali per inserire le minoranze sessuali tra le categorie protette da discriminazioni, ed elogia l’attività di Shams in quanto volta a «preservare la dignità umana e prevenire aggressioni basate su un diverso orientamento sessuale».

Benché privo di effetti per quanto attiene al codice penale, questo giudizio marca nondimeno un passo importante. Così come importante è il comunicato con cui l’Ordine dei medici ha censurato la pratica del test anale, seppur con un linguaggio ambiguo che non l’ha definitivamente messo al bando come violazione assoluta del codice deontologico. La strada resta certamente ancora lunga.

Il Code des libertés

Viene da chiedersi a questo punto se prigione, torture ed esilio fossero ciò che le vittime della persecuzione morale si aspettavano dalla “primavera araba”. O se in qualche modo dovessero aspettarselo, come traspare tra le righe dei molti intellettuali (spesso occidentali, non a caso) che agilmente liquidano le lotte e il martirio per la democrazia liberale, le libertà individuali e la laicità come una sorta di pretesa “occidentale” irriguardosa delle tradizioni locali.

Non è superfluo da questo punto di vista ribadire l’ovvietà che anche le vittime di determinate tradizioni culturali e religiose fanno pienamente parte delle medesime, e hanno quindi tutti i diritti di rivendicare la propria esistenza, la propria identità e il proprio apporto, seppur minoritario, alle società di cui fanno parte. Anzi, a maggior ragione in quanto minoranze. Alla fine la definizione e la ri-definizione di una “cultura” sono spesso il risultato di rapporti di forza, così come lo è, se non temperata, la regola democratica, legge della maggioranza per eccellenza.

Lo scopo di una Costituzione, in questo quadro, è per l’appunto quello di garantire non soltanto il funzionamento dell’architettura istituzionale, ma anche la protezione delle minoranze e dei di diritti individuali contro il volere della maggioranza, sia esso espresso nella comunità, nella moschea o in parlamento. 

Del resto, non provengono dall’occidente i coraggiosi tentativi di cambiamento del sistema in senso maggiormente liberale. Tra questi spicca il Code des libertés, redatto in Tunisia dalla Commissione per le libertà individuali e l’eguaglianza (Colibe), organo creato nel 2017 dall’allora presidente Béji Caïd Essebsi con l’esplicito scopo di «preparare un rapporto con gli emendamenti legislativi necessari per attuare le libertà individuali e l’uguaglianza in conformità alla Costituzione del 2014 e al diritto internazionale dei diritti umani».

Il risultato è stato un ponderoso documento recante proposte di innovazioni cruciali, tra cui, per quel che ci concerne, la riforma del codice penale laddove criminalizza l’omosessualità («motivo illegittimo di discriminazione») e comprime la libertà di coscienza, nella quale viene esplicitamente ricompreso il diritto all’ateismo.

Sottoposto all’esame parlamentare nel 2018, il Code des libertés ha incontrato la viva opposizione degli islamisti (con accuse di apostasia e minacce soprattutto contro la presidente del Colibe, Bochra Bel Haj Hamida), ma anche scarsissimo supporto da parte delle forze laiche. Tuttavia il documento esiste e resta lì, e non è escluso che venga riesumato in un futuro prossimo, come ha auspicato in una recente conversazione con lo scrivente il celebre costituzionalista tunisino e membro del comitato Onu per i diritti umani Yadh Ben Achour.

Garanzie costituzionali

Se i segnali provenienti dalla Tunisia non sono incoraggianti, e quelli provenienti dall’Egitto addirittura tragici (con una dittatura brutale che sembra non conoscere limiti), non bisogna sottovalutare la spinta propulsiva che negli ultimi anni sempre più frequentemente attraversa popolazioni stanche di autoritarismo e corruzione, e che vediamo di nuovo in questi giorni tra le coraggiose donne e uomini nelle strade e nelle piazze dell’Iran.

Proprio dall’Iran ci arriva però una lezione: non basta sostituire un regime con un altro, e allestire elezioni puramente formali, per gridare alla rivoluzione compiuta. Quando il partito Ennahdha, emanazione tunisina dei Fratelli musulmani, forte della sua maggioranza relativa nella fase postrivoluzionaria ha prima cercato di inserire la sharia e il divieto di blasfemia in Costituzione, e poi di ridurre le donne a un ruolo di “complementarietà” con gli uomini, al contempo avvalendosi della Lega per la protezione della rivoluzione per imporre l’islamizzazione dal basso, la società civile tunisina ha reagito vigorosamente contro il tentativo di deviare una rivoluzione per la libertà in senso islamista.

Quando il presidente egiziano Morsi, esponente della Fratellanza musulmana, ha forzato la mano nell’imporre una Costituzione a forte impronta islamista redatta da un’assemblea illegittimamente eletta, e si è poi arrogato pieni poteri tramite un “decreto costituzionale” in cui si metteva al di sopra di qualsiasi autorità e controllo, la gente è tornata in piazza a milioni, mettendo in chiaro che una vittoria elettorale non costituiva un mandato in bianco. Il fatto che la legittima protesta sia poi tracimata nella dittatura militare non ne diminuisce le ragioni. Da qui l’importanza delle garanzie costituzionali: le libertà individuali e lo stato di diritto non sono una gentile concessione, né di una piazza, né di un presidente, né di una maggioranza parlamentare. Né tantomeno sono un optional in un regime democratico, di cui anzi costituiscono l’architrave a contrasto della dittatura della maggioranza.

La pretesa del rispetto dell’autonomia individuale non perde legittimità a seconda che provenga da sopra o sotto il 36° parallelo, da un contesto cultural religioso o da un altro, da una pelle un po’ più chiara o un po’ più scura. Sostenere il contrario significa, di fatto, adottare una prospettiva ai limiti del razzismo, e doppiamente paternalista: in primis, per l’appropriazione indebita della democrazia liberale come «immacolata concezione dell’occidente», per citare Amartya Sen; e di conseguenza, per la pretesa di definire che cosa si “confà” o meno alla “purezza” delle culture non occidentali, in quello che Elham Manea definisce il «nuovo fardello dell’uomo bianco».

In altre parole: la “primavera” può sbocciare davvero soltanto se tutti i componenti della comunità sono chiamati a raccoglierne i frutti. Gli atei, gli agnostici, i riformisti e le persone lgbt sono stati vessati dalla società e dai regimi prerivoluzionari, rivoluzionari e controrivoluzionari – additati come intollerabile offesa al tessuto sociale e minaccia capitale all’ordine pubblico.

Certo, Egitto e Tunisia non sono né i soli né i peggiori persecutori, se consideriamo che undici stati nel mondo puniscono apostasia o blasfemia con la pena di morte, e coincidono quasi per intero con gli altri undici che prevedono la pena capitale per omosessualità. In tutti questi casi, si tratta di stati islamici che giustificano tali misure draconiane in base alla sharia.

Verso spazi di libertà

Il quadro è totalmente negativo e desolante? No. Da un punto di vista formale, le Costituzioni di Egitto e Tunisia (quella del 2014 come l’attuale, che presenta un altro ordine di problemi esulanti dall’oggetto di questo articolo) sarebbero già equipaggiate per garantire libertà di espressione e religione (con alcuni limiti nel caso egiziano), tutela della privacy e divieto di discriminazione. Per di più, l’effervescenza politica e sociale che si è palesata nel mondo islamico dal 2009 (rivoluzione verde in Iran) a questa parte non è certo sepolta. In Tunisia, seppur nel nuovo corso autoritario, la società civile è tuttora vibrante, libera e pugnace, e vi si sono aperti negli ultimi anni spazi di libertà e visibilità prima impensabili per chi non si conforma all’ethos maggioritario.

Il percorso è senz’altro ancora molto lungo, arduo e irto di ostacoli, ma l’importante è che sia chiaro qual è l’obiettivo finale: una piena tutela di tutte le minoranze, di cui la più piccola è l’individuo, per dirla con Ayn Rand. Senza la garanzia dei diritti individuali, quell’urlo di libertà, hurriya, che ha risuonato nelle piazze arabe è solo uno slogan retorico, o ancor peggio, un nuovo disegno di prevaricazione che della prigione non mira ad aprire le porte, ma solo a rimpiazzare gli aguzzini.


Tommaso Virgili è autore del testo Islam, Constitutional Law and Human Rights: Sexual Minorities And Freethinkers In Egypt And Tunisia (Abingdon, New York: Routledge, 2022)

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