I manifestanti che da due mesi protestano contro il regime iraniano hanno bruciato la casa dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica. Le agenzia di stampa Reuters e Afp hanno geolocalizzato e confermato le immagini che da giovedì sera circolano sui social network e che mostrano l’edificio, trasformato in un museo, in fiamme alle spalle di decine di persone in festa.

Si tratta di uno dei gesti più simbolici della rivolta iniziata il 16 settembre che sempre più analisti definiscono una vera e propria rivoluzione. Dopo le prime proteste iniziate dopo l’uccisione della 22enne Mahsa Amini mentre si trovava in custodia della polizia morale, le proteste si sono estese a tutto il paese.

Centinaia di manifestanti e decine di agenti di sicurezza sono stati uccisi. Almeno 15mila persone sono state arrestate, sostiene il governo, anche se il numero reale potrebbe essere molto più alto. Ma la repressione del regime fino ad ora non è riuscita a stroncare le proteste.

Le ragioni della protesta

Amini, la cui uccisione ha dato inizio alle proteste, era stata arrestata per non aver indossato correttamente l’hijab. In Iran le donne sono obbligate per legge a indossarlo, ma dopo un periodo di flessibilità durante i precedenti governo riformisti, il nuovo presidente ultra-conservatore Ebrahim Raisi ne ha reso più stringente l’applicazione.

Le prime manifestazioni sono state portate avanti soprattutto da donne per protestare contro le pesanti discriminazioni di cui sono oggetto in Iran. Molte erano studentesse, anche minorenni. In migliaia si sono tolte l’hijab durante le manifestazioni, mentre in scuole e università gli studenti hanno abbattuto le barriere che separano i maschi dalle femmine.

Dopo i primi giorni, le richieste sono rapidamente passate dalla fine dell’obbligo di hijab e dello strapotere della polizia morale, alla richieste di un cambio di governo, al grido di “morte al regime”.

L’aumento dei prezzi, la difficile situazione economica del paese, la corruzione hanno tutti contribuito a un’ondata di proteste che ha superato quelle del 2009 e del 2019-2020, secondo la maggioranza degli analisti. Nemmeno le aree rurali e quelle più vicine al regime, come le città sante di Mashhad e Qom, sono state immuni alle proteste.

Proteste di solidarietà condotte da emigrati iraniani e simpatizzanti sono state organizzate in Europa, Stati Uniti, Canada, India e molti altri paesi.

La reazione

Il governo guidato da Raisi non ha fatto alcuna concessione ai manifestanti e ha messo in atto una dura repressione, portata avanti soprattutto dai Basij, la polizia ausiliaria volontaria che spesso opera in borghese. La guida suprema Ali Khamenei ha definito le manifestazioni della «rivolte organizzate dall’estero» e una forma di «guerra ibrida» condotta contro il paese.

In alcune città del paese sono state organizzate manifestazioni pro regime, che il governo ha definito «spontanee».

Una rappresaglia particolarmente dura è stata indirizzata contro la minoranza curda che vive nella parte occidentale del paese. Alla fine di settembre e nelle prime settimane di ottobre, l’esercito iraniano ha colpito diverse basi di gruppi di opposizione curdi che si trovano al di là del confine iracheno, uccidendo almeno 14 persone tra cui una cittadina americana e il suo neonato.

Il parlamento iraniano, guidato da una netta maggioranza conservatrice dopo le elezioni del 2020 in cui alla maggioranza dei candidati riformisti è stato impedito di partecipare, ha votato una mozione in cui chiede di applicare la pena di morte a tutti i manifestanti arrestati, ufficialmente 15mila persone. La mozione non è vincolante e per il momento una sola persona coinvolta nelle manifestazioni è stata condannata a morte, ma gli attivisti per i diritti umani temono che questo numero possa presto aumentare.

Le prospettive

Quelle in corso sono le più importanti proteste nel paese dalla rivoluzione del 1979, che ha portato alla nascita della Repubblica islamica. Non sembrano limitate alle grandi città e alla classe media, ma hanno coinvolto almeno una parte della popolazione rurale. Anche le richieste dei manifestanti sono senza precedenti, con un numero elevato di dimostranti che chiede la fine dell’attuale regime controllato dal clero.

Il movimento al momento non ha una leadership, il che rende difficile per il regime colpire il centro nevralgico della protesta, ma difficilmente le attuali proteste potranno trasformarsi in una vera rivoluzione senza figure di riferimento. 

Il regime, inoltre, per il momento rimane compatto. Non ci sono state defezioni né aperture ai manifestanti. Nonostante la violenta repressione, le autorità non hanno ancora messo in campo tutta la loro forza, come hanno fatto durante le proteste del 2019, quando sono stati uccisi circa 1.500 manifestanti in pochi giorni.

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