La campagna elettorale ha messo da parte la guerra in Ucraina. Per mesi battaglie e crisi geopolitica ha monopolizzato il dibattito politico, creato tensioni nella maggioranza che ha sostenuto Mario Draghi, ma ora viene lasciata sullo sfondo. Ci si sofferma solo sulle conseguenze per l’Italia: i rincari della bolletta energetica, e più in generale l’aumento dei costi delle materie prime. Anche il tema dell’invio delle armi a Kiev è praticamente sparito.

Pure la Lega, scesa dalle barricate disarmiste, ha ripreso a parlare di investimento del settore della difesa, per esportare il know how italiano. Tra cui le armi che produce il nostro settore. Sembrano lontani i tempi in cui i suoi dirigenti ipotizzavano addirittura la nascita di un “partito della pace”. Nei programmi non c’è quasi più traccia del tema.

L’amico di Berlusconi

Un esempio significativo arriva da Forza Italia. Silvio Berlusconi è stato sempre riottoso ad affrontare la questione visto l’amicizia di vecchia data con Vladimir Putin. Sono trascorse settimane prima che condannasse l’aggressione ordinata dal Cremlino.

Nel progetto elettorale del suo partito manca qualsiasi riferimento a quanto sta accadendo in Ucraina, il paese attaccato non viene mai citata nel documento di 36 pagine degli azzurri. Così come non viene menzionato mai Putin.

La guerra e l’ambizione per la pace sono fuori dai radar. La Russia compare una sola volta, in merito alla riduzione dell’import di gas. L’unico lontano riferimento che si può cogliere riguarda la collocazione geopolitica per cui, secondo Forza Italia, «l’Italia è, a pieno titolo parte dell’Europa, dell’Alleanza atlantica e dell’occidente».

Lega militare

Ma se per Berlusconi la vicenda non sorprende, è molto diverso per Matteo Salvini, che aveva vestito i panni del pacifista ad oltranza. È innegabile che nel corposo programma, la guerra in Ucraina viene citata in varie occasioni, e non solo per le conseguenze sul sistema economico italiano. La Lega prevede infatti di «promuovere una grande conferenza di pace che ridefinisca interessi e regole di pacifica convivenza».

Un impegno generico, ma in linea con quanto portato avanti dal suo leader. Lo sforzo pacifica però si infrange contro i progetti sull’industria bellica. Fin dall’inizio, Salvini aveva assunto una postura critica nei confronti del governo, citando il papa come modello.

«Ho parlato di cessate il fuoco e di disarmo, dunque questi passano da uno stop di invio di armi», diceva il 16 maggio dopo un vertice con il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Un’idea ripetuta costantemente nei giorni successivi, fino all’auspicio di non dover votare in parlamento una nuova richiesta sugli equipaggiamenti militari da inviare all’esercito ucraino.

Una linea intransigente, che tuttavia nel programma elettorale leghista sembra sfumare. E lascia spazio ad altre idee sulle armi. «Gli investimenti per la difesa sono necessari al fine di dare attuazione al principio di deterrenza, lo stesso che ha garantito la sicurezza in Europa dal secondo dopoguerra», si legge nel testo.

Nessuna contrarietà all’aumento della spesa militare. La richiesta di un incremento viene celata dietro la ragionamento che gli stanziamenti «comprendono anche il finanziamento dell’arma dei carabinieri». Ci sono altri passaggi significativi, nonostante gli estensori del documento si siano guardati bene dall’impiego della definizione di “industria bellica”, preferendo includerla nel macro settore della difesa. Si chiede comunque di «sostenere l’industria nazionale di settore».

Il motivo addotto è «che vale attualmente lo 0,90 per cento del Pil, corrispondente a oltre 15 miliardi di euro e garantisce occupazione diretta a oltre 50mila addetti qualificati, concentrati perlopiù nelle aree del nord ovest (22mila) e nel Mezzogiorno (14mila)». Inoltre «tale sostegno andrà particolarmente orientato nelle possibilità di esportazione, attraverso la previsione di una cabina di regia al massimo livello istituzionale».

Niente armi all’Ucraina, quindi, ma nessun problema all’esportazione verso altri paesi. Fratelli d’Italia ha assunto una linea molto più equilibrista, nel documento pubblicato sul proprio sito e contenente le linee guida del programma. Lo scopo è quello di mostrare un profilo atlantista ed evitare allo stesso tempo malumori con gli alleati. Dunque, si parla di «sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione della Federazione russa» e allo stesso tempo «sostegno ad ogni iniziativa diplomatica volta alla soluzione del conflitto».

Conte e la pace perduta

Anche il Movimento 5 stelle, alfiere per qualche settimana delle posizioni pacifiste, ha relegato la questione in un angolino. Nel sintetico programma di 13 pagine, infatti, non viene menzionata l’Ucraina. C’è solo una riga dedicata al «no alla corsa al riarmo» e un generico richiamo alla «pace e la sicurezza» nell’ambito del progetto di difesa comune europea. Certo, in qualche uscita il presidente del M5s, Giuseppe Conte, a specifica domanda ha chiarito il suo «basta armi» a Zelensky. Ma l’argomento resta più sfumato.

Non sorprende che nemmeno il terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi non faccia menzione del conflitto, né degli equipaggiamenti destinati a Kiev. Non è mai stato infatti argomento centrale del progetto politico e così nel programma c’è solo il riferimento a come modulare la spesa per il comparto della difesa, con la volontà di aumentare e razionalizzare i finanziamenti.

Come prevedibile, invece, nel centrosinistra il tema è più sentito, l’alleanza Sinistra-Verdi dedica un’ampia porzione del programma così come fa Unione popolare. E ne parla pure il Pd, nel solco del sostegno all’Ucraina e della ricerca di un negoziato, affrontando in altri passaggi la necessità di garantire la pace.

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