Lo scenario geopolitico attuale visto dal Cairo assume una configurazione in continua evoluzione e molto articolata. A preoccupare le autorità egiziane non c’è solo la competizione tra potenze sunnite mediterranee o il dossier energetico (che vede l’Italia molto coinvolta).

Mentre l’Europa mantiene con l’Egitto una relazione ambivalente, tra vendita di armi, critiche sui diritti umani e collaborazione strategica nel Mediterraneo orientale, il Cairo guarda a sud.

Per le autorità egiziane pesa molto ciò che accade dal Sudan all’Etiopia, oltre che in Libia. Innanzitutto c’è la questione del Nilo, arteria del paese su cui l’Egitto non può retrocedere. La terza fase di riempimento dell’invaso della Grand ethiopian renaissance dam (Gerd), deciso recentemente da Addis Abeba, è sentita come una provocazione ma le autorità cairote sono ancora incerte su come reagire.

L’Etiopia considera la diga un tema di diritto e orgoglio nazionale oltre che una prospettiva di influenza regionale visto che consentirà al paese di esportare energia idroelettrica in tutta l’area.

Circa un anno fa l’Egitto aveva addirittura minacciato l’intervento militare se il riempimento fosse andato avanti troppo rapidamente. All’epoca l’Egitto si sentiva coperto dalla presidenza Trump che appoggiava formalmente la sua posizione. Ora le cose sono più fluide e la nuova amministrazione Biden preferirebbe mediare per non perdere del tutto il contatto con l’Etiopia.

In effetti gli Stati Uniti oggi temono che spezzare i legami con gli etiopici provochi maggiori danni, visto il conflitto interno in corso. Tra l’altro Addis Abeba non transige sull’africanità della contesa e accetta solo l’Unione africana come intermediario, non volendo sentir parlare di altre organizzazioni multilaterali, nemmeno dell’Onu.

La disputa sulla Gerd

Una posizione che si comprende perché l’Egitto è sempre stato debole dentro l’Unione continentale mentre l’Etiopia vi gioca un ruolo da protagonista. D’altro canto va detto che l’Ua non è percepita da nessuno come un’agenzia efficace, nemmeno dagli africani stessi che ne fanno parte.

La disputa sulla Gerd non riguarda solo l'acqua: rappresenta il catalizzatore di varie controversie regionali, inclusa la condotta etiopica nella guerra del Tigray. Addis Abeba giudica il conflitto una faccenda interna ma il resto del mondo (inclusi gli africani) lo percepisce come una guerra regionale del Corno d’Africa (tesi dimostrata dal coinvolgimento eritreo) con possibili gravi conseguenze internazionali.

Per gli africani se il risultato dello scontro fosse una qualche forma di secessione, esso avrebbe ricadute pesanti che andrebbero oltre la sola Etiopia. Un’ulteriore zona di instabilità nell’Africa sub-sahariana non è auspicata da nessuno.

Nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite del mese scorso, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha additato l’Etiopia accusandola per la sua «intransigenza e il suo rifiuto ingiustificato» di utilizzare la diplomazia internazionale, segnalando che ciò rappresenta «una grave minaccia per la sicurezza e la stabilità dell’intera regione».

Ciò che allarma l’Egitto è anche il rafforzamento dei legami tra Turchia ed Etiopia a causa della fornitura di droni turchi da utilizzare nella guerra contro i tigrini e non solo. Tale vicenda va controcorrente rispetto a ciò che il Cairo aveva desiderato e costruito nell’ultimo anno, con un percorso di riavvicinamento ad Ankara.

Dal rovesciamento del governo a trazione fratelli musulmani presieduto da Mohamed Morsi nel 2013, le relazioni tra i due paesi si erano congelate. Grande protettore della fratellanza musulmana in tutto il medio oriente e nel Mediterraneo, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan aveva più volte accusato il generale al Sisi di autoritarismo militare, ricevendone in cambio simili biasimi.

Ma le rapide evoluzioni dello scenario mediorientale e nordafricano, come ad esempio l’inversione di rotta dell’Arabia Saudita e dei paesi del Golfo (accordi di Abramo e così via) oltre che la situazione in Libia, hanno suggerito ad Ankara e al Cairo di riprendere i loro rapporti.

I rapporti con la Turchia

Uno dei fattori decisivi che ha spinto il governo del Cairo verso una normalizzazione dei rapporti con Ankara è stato l’intervento militare turco in favore del governo libico. Per l’Egitto ciò che accade in Libia è sempre una questione di sicurezza nazionale.

L’aspetto militare dei recenti legami turco-etiopici rappresenta invece uno sviluppo indesiderato per l’Egitto che teme un indebolimento della sua deterrenza militare nell’intera regione.

Tutto è in movimento e anche Addis Abeba cerca nuovi alleati come ad esempio il Marocco che ha appena annunciato un investimento da sei miliardi di dollari per costruire un complesso di produzione di fertilizzanti nella città di Dire Dawa. A parte il valore commerciale del programma, in questa maniera il Marocco ha simbolicamente spezzato l’unità del fronte arabo che fino a ora aveva sostenuto l’Egitto (e il Sudan) nella controversa con l’Etiopia.

Il paese è appena rientrato come membro dell’Unione africana ed è nel pieno della sua ennesima querelle con l’Algeria, sia sul tracciato della frontiera comune che sull’annosa diatriba del Polisario. Non avendo ricevuto il richiesto appoggio egiziano alle sue posizioni, Rabat sta cercando una collaborazione più stretta con Addis Abeba, reagendo così al riavvicinamento tra Algeri e il Cairo.

Tale complicato e mutevole intreccio geopolitico in cui è facile perdersi, comprova che l’attuale assenza di quadri di riferimento e di potenze regolatrici sta provocando una serie ininterrotta di scosse che possono tradursi in guerre o in caos durevole.

La transizione sudanese

A complicare tale quadro regionale c’è la crisi interna della transizione sudanese con lo scontro politico in atto tra i militari e il governo del premier Abdallah Hamdok che è stato arrestato durante il recente colpo di stato.

Il Sudan sta affrontando la sua crisi più pericolosa, iniziata con le manifestazioni di piazza contrapposte, ora pare risolversi con la forza. Il generale Abdel Fattah al Burhan, capo delle forze armate e presidente del Consiglio sovrano, da settimane afferma che le riforme di Hamdok non sono abbastanza energiche e che i militari sono esclusi da tutto il processo.

Da tali affermazioni si capisce che si è trattato di un contenzioso sulla distribuzione delle risorse nazionali. Ma Hamdok non era abituato a tali pretese: il suo background è una formazione negli Stati Uniti e un lavoro presso la Banca mondiale.

Tuttavia non va dimenticato che in Sudan (come in altri paesi) l’esercito non rappresenta solo l’apparato militare ma un vero e proprio ceto sociale di cui occorre tener conto. La richiesta militare di scioglimento del governo transitorio è stata sostenuta anche dalle tribù del Sudan orientale, che anch’esse denunciano l’esclusione dal processo politico di transizione.

Il blocco di Port Sudan, vero hub di distribuzione delle merci, ha aggravato la crisi del paese fino al golpe. In sintesi i negoziati tra Khartoum e le varie regioni (Darfur, Khordofan, Blu Nile, Beja e così via) non hanno avuto il successo sperato ma al contrario hanno fatto arenare la transizione.

Il Sudan è cruciale per la stabilità regionale del Corno d’Africa perché è coinvolto nella crisi etiopico-egiziana, come dimostrano le frizioni al confine col Tigray e le numerose controversie a proposito di rifugiati e di gravi violazioni dei diritti umani in Etiopia.

Le relazioni tra Khartoum e Addis Abeba si sono invelenite in questi ultimi mesi, fino a sfiorare lo scontro armato. Tra il Sudan e l’Egitto le relazioni sono state cattive per decenni ma il Cairo ha approfittato della caduta dell’ex generale Omar al Bashir (legato anche lui ad ambienti della fratellanza musulmana) per ricostruire prontamente le relazioni con Khartoum.

Si dice anche che il Cairo abbia iniziato a cooperare con le forze di sicurezza sudanesi. Ora la crisi interna del paese diviene esiziale per i suoi piani. Gli ultimi due anni erano stati una svolta ma ora il precipitare della situazione rende il futuro incerto.

Come in altri scenari, anche nel Corno d’Africa influisce negativamente l’assenza di una politica europea e occidentale che aiuti a dirimere le contese o a diminuire il caos. Sembra che gli occidentali si limitino per ora a una politica estera giocata di rimessa, fatta salvo la parte del commercio e del business. L’Italia stessa potrebbe essere molto più attiva e preoccupata di ciò che avviene in tutta la regione, particolarmente in Etiopia ed Eritrea con cui ha relazioni storiche.

© Riproduzione riservata