Irritata dal “golpe nel golpe” con il quale il colonnello Assimi Goita si è autoincoronato, questa volta la Francia ha dato seguito alle minacce, sospendendo le operazioni congiunte con le forze armate del Mali. Dal 2012, quando il nord è caduto in mano agli jihadisti e ufficiali di basso rango hanno preso il potere nella capitale Bamako, il Mali naviga a vista, fra interventi internazionali e un precario processo di pace. Nel frattempo è ormai l’intera regione saheliana a essere spazzata da un’insorgenza jihadista sempre più estesa e profonda: da ultimo, venerdì notte, il massacro meticoloso di più di 160 abitanti nel villaggio di Solhan, Burkina Faso.

Il rafforzamento della capacità degli apparati militari e di sicurezza saheliani è uno degli obiettivi su cui la Francia ha più insistito, portandosi dietro – fino all’accompagnamento in combattimento – anche le forze speciali italiane (Operazione Takouba). L’Italia, in passato sorda agli appelli francesi, è andata incrementando la propria presenza nella regione, con apertura di ambasciate e crescente attenzione alle dinamiche migratorie trans-sahariane. La nomina dell’ex viceministra degli Esteri Emanuela Del Re a nuova rappresentante speciale Ue offre una prova delle ambizioni del governo italiano nel Sahel. Siamo dunque a un punto di svolta, con la Francia che, pur mantenendo i raid aerei della propria missione Barkhane, tira il freno mentre i partner europei sono lanciati?

Cosa fa l’Unione europea

La nuova strategia europea per il Sahel, pubblicata il 19 aprile scorso, segna qualche passo in avanti: l’Unione oggi sposta la propria attenzione sui problemi di malversazione e corruzione, cercando di gettare luce sulle lacune in materia di governance nelle capitali saheliane. Bruxelles da una parte sostiene e dall’altra tenta di arginare l’interventismo francese: accompagna Parigi, fornendo training e attrezzature, ma – riflettendo la cautela tedesca – evita di esporsi rispetto a interventi militari diretti.

Il putsch militare del 24 maggio è il secondo golpe in Mali nell’arco di 9 mesi: come già per il colpo di mano in Ciad del 19 aprile – che ha visto la presa del potere di una giunta di generali guidati dal figlio del defunto presidente senza incorrere negli strali di Parigi – esso mette a nudo l’assenza di coordinamento fra i governi europei tanto sul piano retorico quanto su quello operativo. La stessa sospensione della collaborazione militare francese non pare essere stata discussa con il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) a Bruxelles. Da una parte dunque l’Eliseo, che vuole segnalare ai paesi saheliani che la misura è colma e altri colpi di stato non saranno ammessi. Dall’altra l’Unione europea, che sceglie di continuare l’addestramento delle forze maliane.

Dietro queste discrasie c’è un problema più profondo, che da tempo traspare nella retorica sulla “necessità di intervenire” in questo perimetro di crisi: più volte definito «laboratorio europeo» dal precedente rappresentante Ue, Angel Losada, il Sahel è visto dalle diplomazie europee sia come minacciosa “bomba demografica” che come terreno di sperimentazione di aspirazioni all’autonomia strategica. Il ruolo della nuova rappresentante Del Re è quanto mai complesso: non solo dovrà bilanciare interessi e strategie fra paesi che sono andati profilandosi in modo sempre più netto, ma dovrà anche convertire fiumi di retorica europea in qualche risultato concreto.

Il Sahel è una regione poverissima, che sacrifica quote massicce di budget statali in spese per difesa e sicurezza. Fino a pochi anni fa nessuno, a queste latitudini, si sarebbe definito saheliano. Oggi, con l’infittirsi della trama di assistenza e interventi (non solo europei, ma anche statunitensi, russi, cinesi, turchi e dei paesi del Golfo) è andata montando una retorica che rappresenta quest’ampia regione così poco definita come un’auto-evidenza geopolitica, la madre di tutte le battaglie esistenziali a venire: il “vero confine” fra civiltà e barbarie, dove inizia a dispiegarsi l’azione di contenimento di migrazioni e jihadismo. Proprio qui sono stati trasferiti i veterani della “guerra al terrore” dichiarata e di fatto persa in Afghanistan. Lo stesso capo di stato maggiore delle forze armate francesi giorni fa ha affermato che «fra dieci anni saremo ancora qui a combattere i jihadisti». Dunque il Sahel come spazio d’eccezione, e il nemico jihadista come spettro, quasi un alieno piombato a destabilizzare un mondo amico di pace e concordia. Un mondo che sappiamo capire solo in termini di identità fisse, siano esse claniche o politiche, obliterando la profonda segmentazione sociale che solca questi paesi.

Clima e corruzione

Il modo in cui l’Europa affronta qui la crisi climatica, impacchettando demografia, conflitti e cambiamento climatico in un’unica scatola esplosiva, segnala la scarsa comprensione di dinamiche regionali. In sintesi, si sostiene che il cambiamento climatico porti desertificazione, la quale, riducendo le superfici coltivabili, genera tensioni tra comunità locali e dunque radicalizzazione. Niente di più inesatto: il nesso tra desertificazione e violenza è ancora da dimostrare. Ciò che è dimostrato, invece, è come un’amministrazione corrotta e inefficiente alimenti le tensioni sociali, aiutando le offerte di protezione e mobilità sociale degli jihadisti di turno, fra loro in competizione. Spesso sono proprio i progetti di sviluppo volti a riqualificare un’area a far saltare i meccanismi di mediazione: nuove infrastrutture o progetti di riforestazione aggiungono valore a zone depresse, introducendo nuovi attori armati (guardie forestali). Mesi fa, mentre le capitali della regione erano colpite da disastrose inondazioni, la stampa italiana offriva articoli sul “Sahel che muore di siccità”.

La crisi maliana ha certo radici profonde, ma nelle sue manifestazioni odierne traspaiono le tensioni attorno al ruolo dei militari in Francia, il fallimento delle iniziative di riforma degli apparati di sicurezza degli stati saheliani, e i corti circuiti innescati localmente dall’esaurirsi della formula della “guerra al terrore”, con l’apertura di spazi di dialogo con i jihadisti di marca qaedista. Dal Mali al Sudan, passando per Algeria e Ciad, i temi del rapporto fra militari e politici, dei colpi di stato, delle giunte in divisa kaki, e delle transizioni politiche più o meno inclusive, sono tornati dirimenti nello spazio del Mediterraneo allargato. È grave che la politica estera non paia guidata da una teoria, se non del cambiamento, quantomeno della transizione. Se gran parte dell’instabilità saheliana riguarda dinamiche di sicurezza locali, e non v’è traccia di attentati in Europa orditi a queste latitudini, è plausibile che lungo questa traiettoria di intervento le profezie sugli scenari peggiori finiscano per autoavverarsi, secondo un copione tipico del repertorio della Realpolitik meno avveduta. Il fatto che le prime iniziative di contro-terrorismo trans-sahariane siano state dispiegate nella regione dagli americani subito dopo l’undici settembre, ovvero ben prima che qui si registrasse un problema di insorgenza, dovrebbe aver allertato circa il possibile rovesciamento fra “cause” ed “effetti”.

Il ruolo dell’Italia

Oggi che, con il governo Draghi, il rapporto con la Francia è più costruttivo, mentre la Ue ha una nuova rappresentante speciale (italiana) e un nuovo approccio strategico, è quanto mai necessario demistificare l’immagine del Sahel come confine ultimo e battaglia decisiva, evitando la ricerca degli amici-clienti di turno, e dando invece ossigeno a un dibattito sulla politica estera comune che da troppo tempo è tenuta ostaggio da ossessioni migratorie. Per dirla chiaramente: da sempre la sopravvivenza nel deserto è data dalla circolazione. I divieti di movimento che si vanno imponendo, bloccando gli stagionali e le migrazioni circolari, minano l’economia, condannano alla miseria e alimentano ulteriori spinte alla radicalizzazione.

Insistere con la retorica neocoloniale del Sahel come grande laboratorio sperimentale di interventi militari, invece che riportare il dibattito sul piano di una sobria analisi politica, sociale, economica ed ecologica, significa costruire una periferia europea divisa tra fazioni mollemente allineate agli interessi europei e aree nemiche ingestibili, divisa fra chi ha accesso all’aria condizionata e chi costruisce un ordine politico alternativo e ostile.

© Riproduzione riservata