Il successo del partito del presidente Recep Tayyip Erdogan, l’Akp, è stato possibile anche grazie al sostegno di una parte specifica dell’elettorato turco: quello delle donne conservatrici. Più di venti anni dopo, però, il gradimento dell’Akp all’interno di questo bacino elettorale registra un significativo declino, rendendo ancora più incerta la vittoria del presidente uscente alle elezioni del 14 maggio.

L’etichetta di conservatori moderati

Nella sua ascesa al potere, iniziata nei primi anni Duemila, l’Akp ha saputo presentarsi come una forza politica conservatrice ma moderata, attenta anche alle esigenze delle donne e al ruolo da loro ricoperto all’interno della società, incoraggiandole a far sentire la loco voce attraverso le elezioni. In cambio di questo appoggio, l’Akp ha adottato politiche di welfare a sostegno delle famiglie che hanno favorito le donne ed elevato il ruolo di madri che molto di loro ricoprono, principalmente nell’ambiente conservatore. Erdogan stesso ha più volte incitato le famiglie turche ad avere sempre più figli, in discorsi dai toni più o meno misogini a seconda del momento e mettendo in relazione l’aumento della natalità con la prosperità del paese.

Ma alle sue elettrici l’Akp ha anche promosso una maggiore presenza nel mercato del lavoro, approvando nel 2003 una legge che garantiva il congedo per maternità e una più capillare rappresentanza politica attraverso l’apertura di sezioni femminili del partito, oltre ad aver approvato una serie di leggi che offrivano tutele rafforzate contro la violenza di genere. Le aspettative però sono state largamente disattese. Nel 2022, la Turchia è ancora al 124esimo posto su 146 nella classifica del Global gender gap e solo il 17 percento dei rappresentanti parlamentari è donna, mentre le tutele contro la violenza di genere sono state ridotte.

La crisi

Il consenso verso l’Akp e il suo leader però è iniziato a crollare davvero a partire dal 2018 e in misura ancora maggiore dal 2020 in poi. Alla base del calo dei consensi vi è principalmente la crisi economica, che ha intaccato le politiche di welfare dedicate alle famiglie mentre il prezzo dei beni di prima necessità e degli affitti è continuato a salire. A ciò si è aggiunto anche il venir meno di alcune importanti forme di protezione delle donne, prima fra tutte la Convenzione di Istanbul. Erdogan ha ritirato il paese dal trattato internazionale nel 2021, scatenando la reazione non solo della parte laica e progressista della società, ma anche di quella più conservatrice. Le donne con e senza il velo sono scese insieme in strada in occasione delle proteste tenutesi nelle principali città turche per chiedere al governo di non abbandonare la Convenzione. Quello del femminicidio d’altronde è un problema molto sentito nel paese: nei primi tre mesi del 2023 sono state uccise 65 donne, dopo un 2022 chiusosi con 334 casi di femminicidio accertati.

A preoccupare l’elettorato femminile adesso è anche l’alleanza siglata da Erdogan con il partito di estrema destra curdo-sunnita Huda-Par e con il Nuovo partito del benessere (Ypr) di Fatih Erbakan, figlio del mentore dell’attuale presidente e leader dell’islam politico. Entrambe le formazioni politiche sono a favore della cancellazione della legge 6284, approvata nel 2012, che prevede tutele contro la violenza domestica e contro il fenomeno delle “spose bambine”, una pratica ancora in uso negli ambienti più conservatori della società turca.  L’alleanza con Ypr e Huda-Par, però, non è un problema solo per le elettrici. La componente femminile dell’Akp si è espressa contro ogni tentativo di modificare la legge a tutela di donne e minori, definendola una “linea rossa” da non superare, ma il loro parere rischia di non essere rilevante. Stando alle rivelazioni dal giornalista Ismail Saymaz, Akp e Ypr hanno già siglato un memorandum che impegna le parti a tutelare i valori morali in cui i due partiti si riconoscono e a proteggere l’integrità della famiglia modificando il quadro legislativo esistente.

Le elezioni

Intanto i primi effetti delle scelte politiche di Erdogan iniziano a vedersi nei sondaggi. Stando ai dati della Social Democracy Foundation, solo il 68 percento delle 1.067 donne che nel 2018 ha votato l’Akp esprimerà la stessa preferenza alle prossime elezioni. Una parte dei voti persi andranno invece al partito repubblicano di ispirazione kemalista (Chp), al Buon partito di Meral Akşener e a Deva, guidato dall’ex ministro dell’Economia ed ex vice-premier Ali Babacan.

Nel tentativo di arginare la fuga di consensi, Erdogan nei mesi passati ha anche provato a giocare la carta del velo islamico, associando la possibile vittoria dell’opposizione al ritorno alle restrizioni imposte contro l’hijab a partire dagli anni Settanta e rafforzate durante i golpe militari del 1980 e 1997. Fu proprio l’Akp ad eliminare nel 2008 quel divieto costituzionale che proibiva alle donne di indossare il velo in determinati contesti pubblici, università comprese, e che traeva la sua origine dalle riforme volute da Kemal Ataturk negli anni venti del Novecento per occidentalizzare la neonata Repubblica turca.

Lo spauracchio delle restrizioni sul velo, però, non sembra aver sortito l’effetto desiderato. Il partito repubblicano non ha mai fatto menzione di voler reintrodurre simili restrizioni, anche perché all’interno della coalizione dell’opposizione sono presenti partiti di destra e conservatori che mal vedrebbero una proposta di questo genere.

Il paragone tra Ataturk e il leader del Chp, dunque, non regge, ma il padre della Turchia moderna e quello della Turchia più conservatrice hanno invece qualcosa in comune. Entrambi hanno strumentalizzato il voto delle donne - in un’ottica laica e liberale il primo e in una religiosa il secondo - facendole credere che la loro voce sarebbe stata finalmente ascoltata. In entrambi i casi si è trattato più di una strumentalizzazione che di una vera emancipazione, ma adesso Erdogan rischia di pagarne le conseguenze.

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