Facebook allontana Donald Trump, il Partito repubblicano si stringe attorno a lui. È la sintesi di due notizie che arrivano da Washington e che vanno sovrapposte per restituire i contorni dello scenario politico attorno all’ex presidente. La prima: l’oversight board di Facebook, una specie di Corte suprema indipendente del social network, ha confermato la decisione di sospendere a tempo indeterminato l’account di Trump dopo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, riconoscendo che le sue esternazioni hanno creato «un serio rischio di violenza». L’organo, tuttavia, ha anche detto che la sospensione è stata «arbitraria» e ha suggerito all’azienda, a cui spetta l’ultima parola, di arrivare a una decisione definitiva sul caso entro sei mesi. Al di là dei cavilli procedurali e dei criteri, tutt’altro che chiari, con cui l’azienda decide chi ha diritto ad abitare quello spazio digitale, la decisione è una conferma della cacciata dallo spazio della discussione civile dell’ex presidente. Ci avevano pensato gli elettori a toglierlo dalle istituzioni e il fallimento della seconda procedura di impeachment a suo carico aveva evitato conseguenze più profonde.

Il giorno prima della decisione Trump, da vero nostalgico del Novecento qual è, ha aperto un blog, dotandolo giusto di quel minimo di funzionalità di condivisione che permette ai suoi seguaci di nobilitarlo con il nome più contemporaneo di “piattaforma”. Dal blog, Trump promette di continuare a fare Trump, e ieri dopo la sentenza del board ha castigato i giganti della tecnologia a suon di «total disgrace» e altre circonlocuzioni note.

Su questo sfondo si innesta la seconda notizia. I leader del Partito repubblicano al Congresso stanno minacciando di cacciare dalla dirigenza la deputata Liz Cheney, numero 3 del partito, colpevole di avere votato per l’impeachment e in generale di avere contrastato nel modo più aperto e rumoroso possibile l’ex presidente e tutto ciò che rappresenta. Lunedì Cheney ha per l’ennesima volta fatto esternazioni contro la «grande bugia» propalata da Trump sulle elezioni rubate, dicendo che «avvelena il nostro sistema democratico» e si è scontrata con il leader della minoranza alla Camera, Kevin McCarthy. Ieri il suo vice, Steve Scalise, ha dato l’endorsement alla deputata Elise Stefanik, ben allineata con la linea trumpiana, per rimpiazzare Cheney, che ora è considerata un asset tossico nel partito e andrà incontro al giudizio finale del gruppo al Congresso la settimana prossima.

L’elettorato trumpizzato

Si potrebbe pensare che nel mutato clima politico la posizione antitrumpiana di Cheney sia la postura ovvia per i repubblicani, invece i maggiorenti del partito continuano a tenere fede al patto con un Trump grottescamente confinato in un blog, fondamentalmente perché gli elettori che rappresentano sono immersi, anzi plasmati dal trumpismo. Un sondaggio della Cnbc all’indomani delle elezioni diceva che il 74 per cento degli elettori conservatori desiderava che Trump rimanesse coinvolto nella vita pubblica, e quasi la metà sperava rimanesse a capo del partito. Molti sognano un suo grande ritorno come candidato alle prossime elezioni. Il risentimento per un immaginato complotto ai danni di Trump e della gente che rappresenta è il collante di un popolo che ha aderito nella forma e nel contenuto nazional-populista alla versione trumpiana del Partito repubblicano.

«Il risentimento è una delle forze più potenti nella vita umana», ha scritto, cogliendo il punto, l’ex funzionario clintoniano William Galston in un saggio sulla rivista American Purpose. E la conferma della cacciata da Facebook, simbolicamente un bando dal consesso civile, aggiunge risentimento a risentimento, costringendo gli apparati del partito a inseguire il sentimento che ancora tiene insieme la base trumpizzata.

 

© Riproduzione riservata