Sulle scale i corpi inermi coperti di polvere e calcinacci. Sulle pareti le macchie di sangue. Tra le macerie i volti dei morti. Braccia, gambe e pezzi di corpo sono sparsi ovunque. Le ultime immagini degli attacchi israeliani contro l’ospedale Nasser di Khan Yunis sono terrificanti. Uno dei raid, quello eseguito con un drone kamizake, è stato ripreso anche dalle telecamere. Volontari e soccorritori sono stati fatti saltare in aria nonostante fossero ben riconoscibili. L’ennesimo crimine di guerra in diretta televisiva.

«È stata una scena mostruosa e crudele. L’attacco è avvenuto in un momento in cui c’è carenza di forniture mediche e attrezzature, cosa che rende ancora più brutale la situazione. Non so cos’altro dire, è qualcosa di mostruoso», ha raccontato il dottor Mahmoud Kullab di Medici Senza Frontiere.

Il bilancio finale del raid è di 20 palestinesi uccisi, tra questi un neonato di 27 giorni, e cinque giornalisti: il fotoreporter di Al Jazeera Mohammed Salameh, il cronista Moaz Abu Taha, il fotoreporter Hussam al-Masri di Reuters, la fotoreporter Mariam Abu Dagga, impegnata a coprire il conflitto per Associated Press, e Ahmed Abu Aziz, collaboratore di Quds Network e altri media.

L’attacco è un «orribile crimine», ha detto al Jazeera, e rientra «campagna sistematica per mettere a tacere la verità». Ap e Reuters si sono dette «scioccate» e «sconvolte» per l’attacco indiscriminato contro i loro reporter.

Le forze armate dello Stato ebraico hanno fatto sapere in una nota che «non prendono in alcun modo di mira i giornalisti in quanto tali, e si adoperano il più possibile per ridurre al minimo i danni a loro arrecati». Ma i numeri non mentono e nel pomeriggio un altro reporter, Hassan Duhan, è stato ucciso in un raid ad Al-Mawasi. Mai nella storia così tanti operatori dei media sono stati uccisi in un singolo conflitto: sono più di 275 quelli morti per mano dell’Idf negli ultimi 23 mesi.

Solo due settimane fa in un attacco contro una tendopoli è stato ucciso il corrispondente di Al Jazeera Anas al Sharif insieme ad altri cinque colleghi.

L’Idf ha fatto sapere che «si rammarica per eventuali danni causati a persone non coinvolte». Li definisce così: «Eventuali danni». E ha aggiunto che «il capo di stato maggiore ha ordinato di condurre un’indagine preliminare il prima possibile». Ma finora nessuno ha pagato per i crimini di guerra commessi dal 7 ottobre 2023.

A inizio mese la Ong britannica specializzata nell’analisi dei conflitti armati, Action on armed violence (Aoav), ha pubblicato un report in cui ha analizzato 52 casi di crimini e abusi commessi a Gaza e Cisgiordania da ottobre 2023 a giugno 2025. Nell’88 per cento dei casi non c’è stata alcuna conseguenza concreta per i militari israeliani.

Solo in un caso è stata accertata una responsabilità penale. A pagare con sette mesi di detenzione è stato solo un soldato per aver torturato un prigioniero palestinese nel carcere di Sde Teiman. Intanto ci sono stati attacchi a convogli umanitari, a dipendenti Onu, contro ospedali e nei centri di distribuzione alimentare.

Immobilismo

«L’uccisione di giornalisti a Gaza dovrebbe sconvolgere il mondo, non spingendolo a un silenzio attonito, ma ad agire, chiedendo responsabilità e giustizia», ha dichiarato la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, Ravina Shamdasan. Il direttore dell'Unrwa, Philippe Lazzarini, ha denunciato la «scioccante indifferenza e l’immobilismo globale». Il presidente Usa, Donald Trump, si è limitato a dire «non sono contento» dell’attacco.

In un comunicato pubblicato dopo una riunione tra i ministri degli Esteri dei paesi arabi, l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (Oic) ha chiesto che il governo israeliano venga perseguitato per il reato di genocidio nei confronti dei palestinesi e per i crimini di guerra nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Il Vaticano, attraverso le parole del segretario di Stato Pietro Parolin, si dice «allibito».

Da Londra, Madrid e Ankara sono arrivate altre dichiarazioni di condanna. Un copione già scritto centinaia di volte negli ultimi due anni, in cui gli interessi economici e politici prevalgono sulla vita di due milioni di persone.

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