La reporter dell’Ap nel ricordo della sua collega Noor Shirzada: «Abbiamo cominciato insieme a fare questo lavoro e forse finiremo insieme. Sento che la prossima volta potrebbe toccare a me. Il suo ultimo servizio era sulla cerimonia funebre di due bambini uccisi da una bomba»
«Mariam era una collega giornalista, ma era soprattutto un’amica. Abbiamo cominciato insieme a fare questo lavoro e forse finiremo insieme. Sento che la prossima volta potrebbe toccare a me».
Le parole sono della cronista di Gaza Noor Shirzada, che conosceva bene Mariam Abu Dagga, una dei cinque giornalisti uccisi da Israele in un raid sull’ospedale Nasser di Khan Yunis, nel sud della Striscia.
«Ci eravamo sentite l’altro ieri dopo che aveva documentato la cerimonia funebre di due bambini uccisi da una bomba», racconta Noor con la voce mesta. «Non ci si pensa, ma a volte anche noi giornalisti di Gaza che siamo abituati a vedere l’orrore 24 ore su 24 abbiamo bisogno di uno sfogo. E ci eravamo scambiate qualche messaggino di conforto. Non avrei mai pensato di doverle dire addio così presto».
Grandi testate
Aveva 33 anni Mariam, lavorava da molti anni come giornalista, collaborando da tempo con diverse testate nazionali e internazionali. Per la sua capacità di essere precisa, incorruttibile, impavida anche di fronte a situazioni difficili o minacce, anche testate importanti l’avevano scelto come voce da Gaza. Tra queste c’era l’Associated Press.
«Mariam aveva la capacità di mostrare un volto sereno anche mentre raccontava dei raid sulle tende di al-Mawasi – dice ancora Noor - e di raccontare con empatia e precisione quello che accadeva anche mentre correva. Con la macchina fotografica e il telefono, come tutti noi andava sua e giù per la Striscia per documentare il genocidio». Proprio come ha fatto ieri mattina.
Quando la prima bomba è stata sganciata sull’ospedale Nasser, Mariam e il collega Moaz Abu Taha sono corsi per documentare l’accaduto: i morti, i feriti. È stato proprio in quel momento che un secondo drone ha centrato l’ospedale uccidendo i giornalisti e i soccorritori.
Nonostante le richieste internazionali nessun giornalista può entrare a Gaza, e senza una voce dal campo di battaglia restano le dichiarazioni dell’Idf o i racconti fantastici degli influencer, inviati e pagati da Israele per la propaganda di governo. «Ci stanno ammazzando come mosche», dice ancora Noor Shirzada, che non si abitua mai a dire addio agli amici. Nessuno si abitua, per la verità. Nemmeno Mariam, che a fine luglio aveva pianto un amico fraterno, il giornalista Abu Anas, con il quale lavorava abitualmente, anche lui ucciso da un raid mentre lavorava.
Oggi tocca agli amici di Mariam ricordare lei: il suo sorriso, la sua gioia di vivere, la sua dolcezza, la sua bravura come giornalista e come fotografa. «Sapeva trovare il bello anche nella tragedia – ricorda ancora Noor - come un tramonto sulle macerie, il riverbero delle nuvole in una pozzanghera sporca, un uccellino ignaro della strage che canta beato sulla cima di una tenda».
Chi sarà il prossimo
Ora Noor e gli altri sentono ancor di più il mirino delle bombe di Israele sul giubbotto antiproiettile dove campeggia la scritta Press. Dovrebbe essere un deterrente e invece, pare che per Israele proprio quella insegna sia il segnale per far fuoco. «Sento che la prossima potrei essere io, ma questo non mi fermerà.
Non perché ci tenga a essere una martire, io voglio vivere e voglio raccontare la fine di questa guerra, – spiega Noor – ma perché, se smettiamo di raccontare, vincono loro. Vince la loro versione. E il mondo non saprà mai la verità sul nostro genocidio».
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