La distribuzione avverrà in quattro hub posti principalmente nel sud della Striscia. I civili potranno accedervi solo dopo un lungo e attento screening. Una volta dentro, il rischio è che ci rimarranno per sempre
Privatizzare e militarizzare. Queste sono le due parole chiave che hanno guidato il governo israeliano nel progettare il nuovo piano per la consegna degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Dopo mesi di lavoro, il 26 maggio è stato aperto ufficialmente il primo centro di distribuzione degli aiuti in un momento in cui la popolazione civile è ridotta alla fame e già 29 palestinesi tra anziani e bambini sono morti di inedia nei giorni scorsi.
Il piano varato dallo stato ebraico, con il consenso degli Stati Uniti, è stato fortemente criticato dalle Nazioni unite e da diverse organizzazioni internazionali che operano da anni dentro la Striscia. Basti pensare che attualmente l’Onu può contare su circa 400 punti di distribuzione e sulla collaborazione di 200 ong e 15 agenzie, mentre il nuovo progetto rischia di ghettizzare i palestinesi in pochi centri di distribuzione.
Ma cosa prevede nel dettaglio?
Privatizzazione
Per la prima volta gli aiuti umanitari saranno consegnati a Gaza bypassando l’Onu e le sue agenzie. Secondo il gabinetto di guerra israeliano gli aiuti che entrano nella Striscia vengono dirottati da Hamas, ma al momento si tratta di accuse presentate senza prove.
La distribuzione materiale avverrà in 4 hub (Secure distribution sites) costruiti principalmente nel sud della Striscia, nei pressi di Rafah. L’area è da mesi zona vietata ed è quasi completamente distrutta, dopo che nel maggio del 2024 l’esercito israeliano ha iniziato un’operazione con quale ha preso il controllo del valico di Rafah. Da quel momento non entrano più i camion carichi di aiuti, mentre durante la tregua ne sono entrati una media di 600 al giorno tramite gli altri valichi aperti. Secondo l’Onu sono 1.500 i tir fermi in Egitto che aspettano le autorizzazioni dello stato ebraico.
All’interno degli hub il cibo sarà distribuito dalla Gaza humanitarian foundation (Ghf), una fondazione registrata in Svizzera l’11 febbraio scorso da David Papazian, ex amministratore delegato del Fondo di interesse nazionale armeno (Anif). A capo della fondazione c’era Jake Wood, ex marine statunitense e fondatore di Team Rubicon, una ong specializzata nei soccorsi durante e dopo disastri e crisi. Wood si è dimesso non appena il centro è entrato in funzione, con un messaggio che critica apertamente l’iniziativa.
L’obiettivo della Ghf è fornire 300 milioni di pasti per i prossimi 90 giorni. «I nostri camion sono carichi e pronti a partire. A partire da lunedì 26 maggio, la Ghf inizierà a consegnare aiuti direttamente a Gaza, raggiungendo oltre un milione di palestinesi entro la fine della settimana. Prevediamo di intensificare rapidamente i nostri sforzi per assistere l'intera popolazione nelle prossime settimane», ha scritto la fondazione.
Militarizzazione
All’interno dei centri di distribuzione la sicurezza sarà garantita da due contractors privati. Le società scelte dal governo israeliano sono la Safe reach solutions e Ug solutions. La prima è già operativa da mesi nel corridoio di Netzarim a Gaza (secondo Haaretz lo avrebbe fatto senza il consenso dello Shin Bet) ed è guidata da Philip Reilly, ex agente della Cia che ha lavorato per grandi contractor militari e noto per aver addestrato in Nicaragua le milizie di estrema destra che combattevano contro il governo marxista.
La Ug solutions, invece, è stata fondata nel 2023 e sarà incaricata di controllare i checkpoint interni e i veicoli che entrano nei centri di distribuzione. All’esterno degli hub, invece, la sicurezza sarà garantita dall’esercito israeliano. I dipendenti dei contractors saranno armati.
I gazawi potranno avere accesso ai centri di distribuzione soltanto dopo un attento screening che prevede la raccolta anche di dati biometrici. Così facendo, gli aiuti diventeranno, quindi, una concessione per soltanto coloro che verranno accettati dalle autorità israeliane.
Criticità
Ci sono diverse preoccupazioni legate al piano varato da Tel Aviv. Secondo ong e Nazioni unite affidare a società private la distribuzione degli aiuti è contro i principi umanitari di neutralità, imparzialità e indipendenza sanciti dai trattati internazionali nati dopo la Seconda guerra mondiale. Israele sta mettendo in discussione il diritto umanitario così come è stato costruito e rischia di creare un precedente pericoloso per il futuro.
L’altra questione chiave è lo sfollamento dell’intera popolazione. Collocare gli hub nel sud della Striscia significa che i civili che vivono a nord devono spostarsi. Senza contare che i centri di distribuzione sono luoghi chiusi. Al loro interno non ci saranno attività di alcun tipo o presidi medici. Questo rischia di ghettizzare la popolazione sfollata una volta entrata negli hub.
Sullo sfondo c’è poi la speculazione economica e finanziaria da parte delle società private scelte dal governo israeliano.
Dimissioni
Per cercare di attirare il consenso della comunità internazionale, la Gaza humanitarian foundation ha assunto tra i membri del suo personale alcuni ex membri di ong e organizzazioni internazionali. Ma il piano appena lanciato ha registrato subito una prima crepa.
A sorpresa, infatti, si è dimesso il ceo Jake Wood. Il direttore esecutivo ha affermato che è «chiaro che non è possibile attuare questo piano nel rigoroso rispetto dei principi umanitari di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza». Per questo motivo ha deciso di fare un passo indietro.
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