«Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume». Per Faruk Šehić la guerra non è più un’opzione. Non lo è quella armata, né lo è quella proseguita sotto mentite spoglie dopo gli accordi di Dayton che fecero cessare il fragore delle armi in Bosnia ed Erzegovina negli anni Novanta. «Ho passato i miei anni migliori al fronte, ora continuo a soffrire a Berlino. Non ho più tempo per Sarajevo», racconta lo scrittore, poeta e giornalista bosniaco. Ed il suo disincanto è quello di un paese intero, provato dalla frustrazione di aspettare un futuro mai arrivato.

Al voto

È così che la Bosnia si presenta alle urne per rinnovare le istituzioni in cui si articola il fragile e complesso scheletro costituzionale concepito per dare equa rappresentanza ai tre popoli costituenti del paese: bosniaci, serbi, croati.

Poco più di tre milioni di cittadini sono chiamati ad eleggere i tre membri della presidenza, ed i parlamenti dello stato, delle due entità di cui è costituito il paese, la Republika Srpska (RS), a maggioranza serba, e la Federazione di Bosnia-Erzegovina (FBiH); e delle dieci unità, i cantoni, di cui è composta la Federazione. Un passaggio delicato in un momento di forti tensioni per il paese, sorvegliato speciale dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.

Per capire l’importanza del voto, con implicazioni che oltrepassano i confini nazionali, occorre riavvolgere il nastro all’estate dello scorso anno quando il paese è precipitato nella crisi politica e istituzionale più profonda dal dopoguerra.

L’allora Alto rappresentante per la Bosnia, che su mandato Onu ha l’incarico di vigilare sull’attuazione degli accordi di pace, aveva introdotto una norma che vieta di negare il genocidio. Un atto legittimo, che rientra negli ampi poteri di intervento di cui dispone il “guardiano dei trattati”, ma contestato dalla dirigenza serbo-bosniaca che da allora ha iniziato a boicottare le istituzioni dello stato.

Agenda secessionista

La crisi si è intensificata a novembre quando il membro serbo della presidenza, Milorad Dodik, ha iniziato a mettere in atto un’agenda secessionista che avrebbe l’effetto di far collassare l’intera architettura istituzionale della Bosnia ed Erzegovina.

La mossa di Milorad Dodik, il più grande alleato di Vladimir Putin nei Balcani, ha aperto un vaso di Pandora di recriminazioni e frustrazioni accumulatesi nel tempo. Il principale partito dei croato-bosniaci, l’Hdz BiH, “gemello” del partito al governo in Croazia, ha intensificato le pressioni per riformare il sistema elettorale, sostenendo che la comunità croata non fosse adeguatamente rappresentata.

«Un dibattito in corso da anni – spiega l’analista politico, Adnan Ćerimagić – dietro cui si cela la visione stessa del futuro del paese». Una Bosnia libera dalle divisioni etniche, dai partiti etno nazionalisti e dalle interferenze dei paesi vicini, Serbia e Croazia, o un paese ancor più frammentato e disfunzionale, questa la posta in gioco.

La risposta del nuovo Alto rappresentante, Christian Schmidt, sembra stare nel mezzo: blindare il partito dell’Hdz in cambio di una maggiore funzionalità dello stato.

Nei mesi scorsi, la bozza di riforma proposta dal politico tedesco e circolata sui media ha sollevato così tante critiche da costringere Schmidt a non imporla, come avrebbe potuto fare. «Ad opporsi sono stati anche paesi come Italia e Francia che contestano la scelta stessa dell’Alto rappresentante di intervenire su una questione così delicata», spiega ancora Ćerimagić.

Il sistema Dayton

Altrettanto insoddisfatti del sistema Dayton sono i partiti che rappresentano l’altro popolo costituente, quello bosniaco. Partiti che si muovono però in direzione opposta rispetto a serbi e croati, verso una maggiore centralizzazione dello stato e una minore frammentazione etnica.

Invettive intrise d’odio e nazionalismo hanno avvelenato il dibattito pubblico ed esacerbato una realtà già difficile da vivere. «Guarda qui, la Deutsche Bahn (società ferroviaria tedesca, ndr) pubblica gli annunci nella nostra lingua: “Non c’è bisogno che siate esperti di treni, ve lo insegniamo noi”», dice Tihomir, attivista ambientale a Banja Luka, capoluogo della RS.

Tihomir sta pensando di unirsi ai migliaia di giovani che in massa vanno via dalla Bosnia ed Erzegovina, pur di sottrarsi al giogo politico, l’unico in grado di garantire un lavoro e una parvenza di normalità. «E poi guerra e genocidio, vittime e carnefici. Ed etnie: siamo ancora fermi al noi e loro. Intanto la vita passa, che ci faccio qui?».

Esodo giovanile

Una domanda, quella di Tihomir, a cui solo lo scorso anno 250mila giovani hanno risposto lasciando il paese. Un esodo epocale, che dà la misura di quanto «lo stato sia stato catturato», spiega Ivana di Transparency International. «Da dieci anni – aggiunge – assistiamo ad un deterioramento dello stato di diritto. Le decisioni vengono prese in modo informale, altrove, le istituzioni non sono che una facciata».

Il 24 febbraio è diventato chiaro a tutti il rischio che corre la Bosnia ed Erzegovina. Mentre Putin ordinava l’invasione dell’Ucraina, Stati Uniti, Regno Unito, Ue e Nato correvano ai ripari. Rafforzata la missione militare dell’Ue in Bosnia ed Erzegovina (Eufor-Althea), inasprite le sanzioni di Washington e Londra contro Dodik, congelati alcuni dei fondi europei destinati alla RS.

«Si tratta di misure simboliche – spiega Ćerimagić – di messaggi politici diretti anche agli elettori. Ora la questione è: nonostante questi segnali, i cittadini daranno ancora il loro sostegno a Dodik?».

La possibile sconfitta 

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Una prima sorpresa dalle urne potrebbe essere proprio la sconfitta del leader secessionista serbo. Candidato alla presidenza della RS, Dodik dovrà vedersela con Jelena Trivić, esponente del Partito del progresso democratico (Pdp), che guida il fronte delle opposizioni.

«Un’opposizione dai forti accenti nazionalisti, ma contraria alla secessione della RS e non filorussa nella misura in cui lo è Dodik», spiega l’analista. L’ipotesi della sconfitta non è lontana dalla realtà.

Lo ha ben intuito il presidente serbo, Aleksandar Vucic, che a differenza delle scorse elezioni, non ha fatto campagna per l’alleato serbo, optando per una posizione più neutrale.

Più sbilanciato Viktor Orbán, che nel rush finale ha inviato un video messaggio di sostegno a Dodik, «una persona – lo ha definito il premier ungherese – disposta a mantenere la pace, aperta al dialogo, impegnato per il rispetto degli accordi di Dayton, scherirato da sempre a difesa degli interessi del popolo serbo». 

«La sconfitta di Dodik significherebbe per la Bosnia navigare in acque più tranquille, ma certo – avverte Ćerimagić – non segnerebbe la fine dei problemi nel paese».

La presidenza

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Riflettori puntati anche sulla partita della presidenza dello stato e in particolare sull’elezione del membro croato. A contendersi la carica, Zeljko Komsic, leader del partito multietnico Fronte democratico (Fd) e la conservatrice Borjana Krišto, candidata dell’Hdz BiH. Una sfida importante proprio alla luce delle pressioni dei conservatori croati sulla riforma elettorale.

Le urne potrebbero infine consegnare un arretramento dell’Sda, partito nazionalista bosniaco-musulmano, che dalla fine della guerra è sempre riuscito ad eleggere un suo rappresentante alla presidenza tripartita.

Il risultato più importante delle elezioni, però, la Bosnia ed Erzegovina se lo aspetta dall’Ue. «Se Dodik andrà via, Bruxelles ci darà lo status di paese candidato o andrà a finire come in Macedonia del Nord?», chiede Hana, giornalista.

Dopo il caso di Skopje, rimasta in sala d’attesa per anni a causa dei veti di Grecia e Bulgaria che nulla avevano a che fare con il processo d’integrazione, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la concessione dello status di paese candidato a Ucraina e Moldavia.

«Non ci vogliono» è il leitmotiv che risuona nell’intera regione dei Balcani e in particolare in Bosnia, ferma allo status di candidato potenziale. Dopo le elezioni la Commissione europea pubblicherà un rapporto su tutti i paesi coinvolti nell’allargamento, ma c’è grande attesa sul dossier bosniaco.

Palazzo Berlaymont potrebbe raccomandare agli stati membri di riconoscere la Bosnia come paese candidato all’Ue, dando così nuova linfa a un processo a lungo in stallo. Molto dipenderà dal voto di oggi quando si capirà se Sarajevo vuole continuare a brancolare in un eterno dopoguerra, a rischio di precipitare in un nuovo conflitto, o se intende imboccare la strada verso la costruzione di uno Stato finalmente maturo.

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