Il nuovo numero di Scenari, la pubblicazione geopolitica di Domani, è questa settimana dedicato al mondo di Giorgia Meloni. In venti pagine, gli approfondimenti inediti firmati da Gabriele Natalizia, Lorenzo Castellani, Paolo Alli e tanti altri – e le mappe a cura di Luca Mazzali, Daniele Dapiaggi e Giulia De Amicis di Fase2studio Appears – analizzano le contraddizioni e le confusioni strategiche di un nascente governo che gli alleati internazionali osservano con sospetto.

Cosa c’è nel nuovo numero

Il politologo Gabriele Natalizia parte dal dibattito sulla continuità o discontinuità dei governi in politica estera, rilanciato dopo il risultato emerso dalle elezioni del 25 settembre. Molti osservatori sostengono infatti che l’indirizzo nei legami con gli altri stati dipenda ogni volta dall’appartenenza politica dei governanti in carica, in linea con la logica volatile e mutevole della politica interna. Ma una serie di fattori strutturali rema in realtà a favore della continuità: tra questi, le logiche di potere a cui è chiamato ad adeguarsi ogni nuovo governo, l’eredità politico culturale, le condizioni strutturali che contraddistinguono l’ambiente internazionale.

Alla luce di ciò, spiega Natalizia, è verosimile che il nuovo governo di centrodestra non farà registrare scossoni nella dimensione estera, nonostante certe relazioni o preferenze “pericolose” di alcuni suoi esponenti, resi ancora più evidenti dall’attuale congiuntura internazionale.

Proseguendo la riflessione sulla politica estera e sugli imponenti cambi di direzione imposti dall’invasione russa in Ucraina, lo storico Lorenzo Castellani fa luce sui tormenti della destra sempre più divisa tra sovranismo e atlantismo: mentre Fratelli d’Italia vede nel sostegno alla strategia globale di Washington l’occasione per indebolire i vincoli europei, Lega e Forza Italia continuano a coltivare la linea dell’ambiguità con la Russia di Vladimir Putin, come raccontano da ultimo le dichiarazioni di Silvio Berlusconi diffuse il 19 ottobre. 

In questo contesto, precisa Castellani, la leader di FdI sarà chiamata a scegliere tra il conflitto con l’attuale ordine istituzionale e la rimodulazione graduale del centrodestra europeo su una rotta atlantica e pragmatica. Nel primo caso Meloni agirebbe solo da capo politico, nel secondo riuscirebbe a sommare anche la funzione di capo di governo. Da queste scelte dipenderà l’indirizzo futuro della politica estera italiana.

Paolo Alli della Fondazione De Gasperi evidenzia come sarà proprio l’Europa la principale sfida geopolitica per l’Italia: tra tutti i temi che saranno sul tavolo del nuovo governo – dal sostegno all’Ucraina all’ancoraggio saldo a Washington, alle delicate relazioni con Cina e India, fino a un piano Marshall per l’Africa e alla centralità del Mediterraneo – sarà quello dei rapporti europei il dossier che richiederà maggiore chiarezza. Se Giorgia Meloni fallirà in Europa, sostiene Alli, finirà presto anche il suo ruolo guida in Italia.

Lo storico Stefano Pelaggi sposta a seguire lo sguardo sul senso atlantista di Meloni per la questione Taiwan: il sostegno mostrato da FdI nei confronti di Taipei – emerso senza ambiguità con l’incontro avvenuto a luglio tra la leader e Andrea Sing-Ying Lee, ambasciatore de facto di Taiwan in Italia, e con successive dichiarazioni – complica le relazioni con Pechino, che erano state invece cementate dal governo gialloverde.

La linea della futura premier italiana appare in questo quadro coerente con l’approccio atlantico alla crisi ucraina e alla proiezione degli Stati Uniti nel quadrante Indo-Pacifico. Inoltre, il suo messaggio ha messo in discussione il tradizionale equilibrio intessuto con Pechino dai precedenti governi italiani, una sorta di compromesso che lasciava ogni riferimento alle violazioni dei diritti umani nella Repubblica popolare cinese al di fuori della cornice semantica del dialogo.

Luca Sebastiani offre poi una panoramica sulle reazioni delle principali capitali europee e mondiali seguite alla vittoria della coalizione di centrodestra. Ai diplomatici messaggi di auguri si sono alternati segnali più precisi per il governo che verrà, soprattutto da parte dei rappresentanti dell’Ue, consapevoli dell’atteggiamento anti europeista tenuto da Meloni nella sua carriera politica e della sua amicizia con i governi dei paesi membri più ostili a Bruxelles, come quello di Budapest o di Varsavia. Nei rapporti continentali molto dipenderà dall’equilibrio che Meloni riuscirà a trovare con gli alleati. Il Vaticano, intanto, osserva con generale cautela.

A seguire, un articolo dello storico Hal Brands, già apparso su Foreign policy, si inserisce nel dibattito sulla difesa strategica e sul tema del riarmo nucleare, in un mondo in cui le tensioni sono sempre più forti, l’equilibrio militare è contestato e ci sono sempre meno vincoli sulla tipologia e la quantità di armi che le grandi potenze possono impugnare.

Secondo Brands, l’inclinazione degli Stati Uniti per la corsa agli armamenti è diminuita dopo la fine della Guerra fredda, ma entro la fine del decennio Washington potrebbe dover affrontare non uno, ma due sfidanti nucleari: Mosca e Pechino. Per evitare il disastro, quindi, gli Usa dovranno reimparare a essere strategici nel riarmo. La ricompensa della corsa agli armamenti può infatti essere sostanziale se una strategia intelligente costringe un avversario revisionista a modificare il suo approccio aggressivo.

Viene poi presentato un estratto dal libro Una storia della guerra. Dal XIX secolo ai giorni nostri, appena pubblicato per Bompiani e a cura di Bruno Cabanes. Tra i vari contributi presenti nel volume, quello dello storico Leonard V. Smith si concentra sul nostro secolo, definito come «il secolo della guerra perpetua a bassa intensità». 

Smith analizza il contesto dei tre grandi negoziati di pace che hanno plasmato il mondo moderno negli ultimi due secoli: il congresso di Vienna, la conferenza di pace di Parigi e la conferenza di Jalta. Oggi è difficile immaginare nuove “grandi guerre” tra stati, ma il post Guerra fredda, anziché coronare il sogno kantiano della pace perpetua, ha frammentato e globalizzato i conflitti.

Infine, in replica al contributo di Persuasion pubblicato la settimana scorsa su Scenari, dal titolo “Perché incriminare Trump è decisivo per la democrazia”, l’analista Damon Linker approfondisce le tesi contrarie alla sua incriminazione: la permeabilità tra diritto e politica può infatti rendere fumoso il confine tra ricerca della giustizia e persecuzione autorizzata degli oppositori politici; per questo motivo l’unico modo per sconfiggere l’ex presidente è alle urne, non in tribunale.

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