Nel decimo anno di un pontificato che storicamente si va collocando tra quelli di durata piuttosto lunga è ormai possibile iniziare a riflettere con una certa ampiezza sulla sua dimensione internazionale. Com’è ovvio nella storia dell’istituto papale, le novità si combinano con le persistenze. Anzi, è proprio questa dialettica a costituire buona parte dell’interesse e – perché no – anche del fascino che suscita la chiesa di Roma, confermati senza alcun dubbio negli ultimi anni dal successo internazionale e popolare delle due serie televisive di Paolo Sorrentino, per limitarsi a un solo conosciutissimo esempio.

E le novità di papa Francesco sono indubbie e prorompenti, al punto da mettere in ombra gli elementi di continuità, che pure sono molto presenti. Bisogna aggiungere poi che tra queste novità vi sono la comunicazione, praticata con efficacia dal pontefice in prima persona, e l’intenzione di rinnovare le strutture romane e l’intera chiesa, più volte presentata come radicalmente riformatrice, ma sempre dichiarata come proveniente dal mandato del collegio cardinalizio riunito nella sede vacante del 2013. La messa in atto di queste novità ha però mostrato limiti evidenti, che di fatto ne riducono la portata. Con effetti sul futuro che è invece arduo ipotizzare.

Ucraina sotto attacco

Per illustrare quanto appena affermato, conviene iniziare dalla tragica attualità internazionale. Una situazione che, con una fortunata espressione, Bergoglio viene da tempo definendo guerra mondiale «a pezzi», ma che recentissimamente, parlando il 10 settembre alla plenaria della Pontificia accademia delle scienze, ha descritto in modo diverso: un conflitto che, addirittura, «oggi forse possiamo dire “totale”», mentre «i rischi per le persone e per il pianeta sono sempre maggiori».

Ricordando poi che il suo predecessore Giovanni Paolo II – come il suo successore Benedetto XVI testimone diretto della peggiore tragedia bellica del secolo scorso – aveva ringraziato Dio perché «il mondo era stato preservato dalla guerra atomica», il pontefice ha aggiunto che «purtroppo dobbiamo continuare a pregare per questo pericolo, che già da tempo avrebbe dovuto essere scongiurato». Con un accenno molto cauto, ma trasparente, alle reiterate minacce russe degli ultimi mesi, di fronte alle quali non vi erano finora state da parte di papa Francesco prese di posizione esplicite, nonostante la sua evidente condanna della deterrenza nucleare, peraltro ricorrente nel magistero papale degli ultimi decenni.

L’atteggiamento personale di Bergoglio nei confronti dell’aggressione all’Ucraina si è infatti attestato su due costanti: la denuncia chiarissima del conflitto e dei suoi orrori, sempre più sofferta, esplicita e drammatica, a cui si sono aggiunte la solidarietà e la vicinanza al popolo aggredito, espresse anche dalla presenza di inviati papali in Ucraina, da una parte; dall’altra, il silenzio sui responsabili dell’inizio delle ostilità il 24 febbraio, che anzi è stato accompagnato da diversi segnali di attenzione e disponibilità nei confronti degli aggressori.

La posizione sulla guerra

Stupore ha soprattutto suscitato l’affermazione del papa sull’«abbaiare della Nato alla porta della Russia» durante un incontro con il direttore del Corriere della Sera all’inizio di maggio. Pubblicate sul maggiore quotidiano italiano, un paio di settimane più tardi le sorprendenti parole sono state appena sfumate dallo stesso pontefice, che le ha attribuite a «un capo di Stato, un uomo saggio», durante una lunga conversazione con i direttori di una decina di riviste dei gesuiti, il cui testo è stato poi presentato su La Civiltà Cattolica del 18 giugno. Con questa esplicita premessa scandita dal pontefice: «Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro».

E subito dopo ha precisato: «Quello che stiamo vedendo è la brutalità e la ferocia con cui questa guerra viene portata avanti dalle truppe, generalmente mercenarie, utilizzate dai russi. E i russi, in realtà, preferiscono mandare avanti ceceni, siriani, mercenari. Ma il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi. È molto triste, ma in fondo è proprio questo a essere in gioco. Qualcuno può dirmi a questo punto: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sarebbe semplicistico ed errato affermare una cosa del genere. Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità della distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi». In sostanza, una conferma della inusuale frase sulla Nato, sia pure articolata, ma di fatto ulteriormente rafforzata da una serie di distinguo.

Significativo in questo senso delle difficoltà e delle critiche suscitate dalle affermazioni papali è il comunicato della Santa sede diffuso il 30 agosto. Le parole del pontefice e dei suoi collaboratori «vanno lette come una voce alzata in difesa della vita umana e dei valori connessi ad essa, e non come prese di posizione politica. Quanto alla guerra di ampie dimensioni in Ucraina, iniziata dalla Federazione Russa, gli interventi del Santo Padre Francesco sono chiari e univoci nel condannarla come moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega». Aggettivi, questi ultimi, scelti in crescendo dal papa nel corso dei suoi ripetuti appelli: ben ottanta in duecento giorni di guerra, come ha sottolineato l’11 settembre il Sismografo, il sito multilingue specializzato in informazione religiosa diretto dal cileno Luis Badilla che via via le registra con puntualità.

Indirettamente, tuttavia, è il comunicato appena citato a confermare che è proprio la comunicazione diretta, ed efficacissima, del papa a rendere altrettanto difficile la spiegazione all’esterno della posizione, per sua natura diplomatica, della Santa sede.

In altre parole, gli storici del futuro terranno certo conto delle calibratissime espressioni elaborate in segreteria di Stato e di quelle altre volte espresse dal segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, e dall’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati, tra l’altro sul diritto alla difesa. Quel che prevale nettamente e rimane, nell’opinione pubblica ma anche negli ambienti specializzati, è tuttavia quel che dice il papa, in modo più o meno sfumato.

Novità e persistenze

AP

Novità, dunque, e continuità. Come hanno appena documentato per l’ultimo secolo e mezzo – dalla data spartiacque del 1870 al 2020 – tredici specialisti in The Vatican and Permanent Neutrality (Lexington Books), curato da Marshall J. Breger ed Herbert R. Reginbogin, il libro esamina innanzi tutto la crescita rapidissima della proiezione internazionale della sede romana tra la presa di Porta Pia e i Patti lateranensi (1870-1929), paradossalmente proprio quando la sua base territoriale è ridotta ai minimi termini: palazzi vaticani, basilica e un po’ di giardini sorvegliati da sentinelle italiane, e senza che per un intero sessantennio i papi mettano il piede fuori da questo minimo perimetro. Lo osservò nel rapporto di fine missione Jacques Maritain, ambasciatore di Francia presso la Santa sede (1945-1948) e lo ha confermato carte alla mano vent’anni fa Jean-Marc Ticchi nell’originale Aux frontières de la paix. Bons offices, médiations, arbitrages du Saint-Siège (1878-1922).

Vengono poi gli anni bui della «lunga Seconda guerra mondiale» (1931-1945), poi il confronto della Guerra fredda (1950-1990) e, infine, l’ultimo trentennio. Quest’ultimo periodo è caratterizzato tra l’altro dalla scelta per il multilateralismo e per la non proliferazione nucleare, in un contesto dove l’autorità morale della Santa sede e della stessa chiesa cattolica è scossa e minata dall’esplodere mondiale dello scandalo degli abusi e dalla corruzione finanziaria, come sottolinea in conclusione il secondo curatore del libro.

Non è facile, tra i molti volumi su papa Francesco, scansare quelli cortigiani o, all’opposto, quelli insensatamente denigratori, e trovare invece approfondimenti di taglio storico, almeno intenzionalmente, oppure documentario. Per decifrare la visione del mondo secondo Bergoglio è meglio dunque andare al libro intervista El jesuita, uscito nel 2010 e tradotto in italiano subito dopo l’elezione nel 2013 con il titolo Il papa si racconta (Salani). Rispondendo agli amici giornalisti Francesca Ambrogetti e Sergio Rubín l’arcivescovo di Buenos Aires diceva che «la storia ci appare un disastro, un disastro morale, un caos. Quando si pensa agli imperi innalzati a prezzo del sangue di tanta gente, di popoli interi sottomessi; quando si pensa a genocidi come quello armeno, quello ucraino e quello del popolo ebraico che voi menzionate», insomma se si guarda «alla storia recente e anche a quella un po’ meno recente, viene da strapparsi i capelli». Idee chiare, dunque, che si ritrovano con variazioni durante il pontificato, soprattutto nelle diverse interviste.

Risponde papa Francesco

Le interviste, iniziate addirittura con Leone XIII e, pur rarissime, non sconosciute ai papi, vengono privilegiate dal pontefice sin dal 2013 (fino al 2015 sono raccolte in Risponde papa Francesco, edito da Marsilio e tradotto in quattro lingue). Aperte dalla conferenza stampa sul volo di rientro dal primo viaggio internazionale in Brasile e dalla memorabile conversazione con il direttore del La Civiltà Cattolica pubblicata in più lingue da sedici riviste dei gesuiti, in seguito le interviste con Bergoglio si moltiplicano a dismisura su quotidiani, televisioni, libri, finendo per ripetersi e inflazionarsi.

Nel 2017, «di ben altro livello, per le questioni trattate e la profondità dell’argomentazione» è invece il libro intervista Politique et société dello studioso della comunicazione Dominique Wolton (meno indicativo il titolo italiano Dio è un poeta). L’esatto giudizio è di Lucetta Scaraffia, autrice nello stesso anno di un denso e penetrante profilo del pontificato in Francesco, Il papa americano (Vita e Pensiero, tradotto a sua volta in francese e spagnolo), dove la storica descrive con nettezza il «modo nuovo di intervenire nella politica internazionale» di Bergoglio e ne sottolinea il «coinvolgimento personale per la pace, anche a costo di “perdere la faccia” se i suoi interventi non danno i risultati sperati».

Le mete del Pontefice

Lo scenario evocato da Scaraffia è davvero vasto, e significative sono le mete dei viaggi internazionali, non di rado sulle tracce dei predecessori, altre volte con scelte personali: Israele e Palestina, la Colombia teatro della più antica guerra interna a un paese latinoamericano, il Messico dissanguato dalla violenza al punto che il parlare franco del pontefice suscita risentite polemiche, poi l’Africa scelta per aprire il giubileo straordinario della Misericordia, e le Filippine. Fino a Cracovia per una giornata mondiale della gioventù, ma con la visita ad Auschwitz dove Bergoglio «liquida l’unicità della Shoah» facendo capire che vi è «un legame immediato fra quella tragedia e i terribili eventi ai quali assistiamo oggi».

Sorprende nei primi mesi del pontificato la grande preghiera in piazza san Pietro per la Siria, su cui non cadono i missili statunitensi ma che continuerà a essere devastata da una lunga e sanguinosa guerra fratricida. Importante è poi la mediazione tra Stati Uniti e Cuba, resa possibile soprattutto per l’azione dei rispettivi episcopati; nell’antica “perla della corona” spagnola è il terzo pontefice a viaggiare, ma unendo non a caso nello stesso itinerario i due paesi americani. Pochi mesi più tardi Francesco torna nell’isola caraibica, ma si tratta un breve scalo. In una sala dell’aeroporto dell’Avana il papa di Roma incontra infatti il patriarca di Mosca e firma con Kirill una dichiarazione comune.

L’occasione è una prima assoluta, ma i frutti non sono quelli sperati, come si vedrà dopo l’aggressione russa all’Ucraina, benedetta dal potente gerarca ortodosso, per questo rudemente richiamato dal pontefice sul Corriere della Sera del 3 maggio, dove si legge che il patriarca «non può trasformarsi nel chierichetto di Putin». In un contesto ecumenico sempre più problematico perché il mondo ortodosso, già spaccato dal fallimento del concilio panortodosso di Creta provocato nel 2016 da Mosca, sempre più ostile alla chiesa di Costantinopoli, va in mille pezzi: le critiche contro Kirill si fanno sempre più aspre, fino al 31 agosto, quando a Karlsruhe il presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeier apre l’undicesima assemblea del Consiglio mondiale delle chiese con un discorso chiarissimo dove tra l’altro denuncia il patriarcato moscovita per la benedizione alla guerra d’aggressione contro l’Ucraina. «Oggi, i capi della chiesa ortodossa russa portano i loro fedeli e tutta la loro chiesa su una via pericolosa e blasfema che va contro tutto quello che loro stessi credono».

Difficilissimi sono i rapporti con la Cina, con la quale la Santa sede ha raggiunto un controverso «accordo provvisorio» sulla nomina dei vescovi, firmato nel 2018, rinnovato nel 2020 per un biennio e che sta per essere ulteriormente confermato nonostante le opposizioni e le critiche anche nella chiesa, soprattutto di quei cattolici cinesi che si sentono abbandonati da Roma. Su un altro scenario, certo di minore rilevanza ma simbolicamente importante per la storia recente nonché per la presenza sulla sede romana del papa argentino, è la situazione in diversi paesi dell’America latina, visitati quasi tutti da Francesco se si eccettua appunto il suo paese, di cui peraltro segue con attenzione quotidiana ogni avvenimento.

In Nicaragua la dittatura di Daniel Ortega da Roma ha dapprima ottenuto l’allontanamento del vescovo ausiliare di Managua, per arrivare poi all’espulsione del nunzio e persino delle suore fondate da madre Teresa, mentre il vescovo di Matagalpa è di fatto agli arresti domiciliari. In sostanza, una persecuzione dei cattolici e della chiesa che è sfociata in un appello approvato a larghissima maggioranza il 12 agosto dall’Organizzazione degli stati americani, ma che non ha suscitato particolari interventi papali né attirato l’attenzione dei media.

Nella dozzina d’incontri con Wolton, sollecitato dall’interlocutore francese il pontefice ha toccato tra il 2016 e il 2017 molti temi d’interesse internazionale. Oltre naturalmente l’imponente fenomeno migratorio, su cui Bergoglio – discendente d’immigrati italiani in Argentina scampati casualmente a un naufragio grazie al fatto di essersi imbarcati su un altro transatlantico – è tornato innumerevoli volte, spicca la questione dell’Europa e delle sue responsabilità ma dove le parole del papa poco incidono.

Altrettanto non convincente perché di fatto rimossa risulta la questione classica del concetto di guerra giusta perché «la sola cosa giusta è la pace». Più interessante è invece la sua affermazione che ai musulmani gioverebbe «fare uno studio critico del Corano, come noi abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico d’interpretazione li farà evolvere». Con una apertura di credito che finora ha ottenuto qualche risultato soltanto con l’istituzione sunnita di al Azhar al Cairo.

Subito dopo l’elezione, papa Wojtyla si presentò al mondo come «nuovo vescovo di Roma» che i cardinali avevano «chiamato di un paese lontano… lontano, ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana». Fu facile prevedere che l’elezione del primo slavo avrebbe contribuito al crollo del muro tra est e ovest. Trentacinque anni dopo, per «dare un vescovo a Roma» i cardinali nel 2013 lo hanno preso «quasi alla fine del mondo», scandì parallelamente il pontefice argentino, che esalta lo sguardo dalle periferie. Ma aperta resta la domanda se il primo papa non europeo dopo tredici secoli aiuterà a superare le barriere tra l’emisfero nord e l’emisfero sud del pianeta.


 

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