Si avvia a conclusione l’annus horribilis dell’Etiopia. Il grande paese, sede dell’Unione africana e oasi, fino a poco tempo fa, di stabilità e sviluppo in mezzo a un’immensa area di conflitti e tirannie che va dal Sudan allo Yemen, dalla Somalia al Sud Sudan passando per l’Eritrea,  è riuscito in poco più di dodici mesi a dilapidare un patrimonio geopolitico, economico, sociale e morale costruito a fatica negli ultimi decenni. A ripensarlo ora, ci si chiede se sia un lontano ricordo o, peggio ancora, un abbaglio.

L’escalation inaspettata

Abiy Ahmed, primo ministro etiope (AP Photo/Mulugeta Ayene, File)

Quando a novembre dello scorso anno il Tplf (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray) organizzava e svolgeva in Tigray una tornata elettorale senza il permesso di Addis Abeba e prendeva possesso di caserme e armamenti dell’esercito regolare palesando l’intenzione di considerare la propria regione separata dal resto del paese, si pensava che il premier Abiy Ahmed, premio nobel 2019 «per i suoi sforzi di pace e cooperazione internazionale» avrebbe scelto, almeno inizialmente, una via diversa dall’escalation militare.

Fiumi di inchiostro sono stati spesi per descrivere le caratteristiche mediative e riformiste dell’uomo: di etnia oromo – storicamente opposta al governo centrale – di fede evangelica pentecostale nel paese che si identifica quasi interamente con la confessione cristiano ortodossa tewahedo, risoluto nell’affrontare l’annoso conflitto con la vicina Eritrea e fautore della riapertura dei confini dopo oltre 20 anni, innovativo nel pretendere un esecutivo al 50 per cento formato da donne e a caldeggiare la candidatura di Sahle-Work Zewde, prima presidente donna della storia d’Etiopia.

La sorpresa, quindi, nell’osservare già dalle prime ore successive alle elezioni in Tigray, un crescendo militare che faceva precipitare le regioni settentrionale in uno stato di terribile conflitto e la popolazione in una condizione di gravissima emergenza umanitaria, è stata molta. Il bilancio del 2021 è drammatico. Dei 6,5 milioni di abitanti della regione tigrina, 5,2 si trovano in stato di elevato bisogno alimentare. Gli sfollati interni superano abbondantemente i due milioni mentre quelli esterni, verso paesi storicamente più instabili dell’Etiopia come Sudan e Sud Sudan, aumentano di giorno in giorno. Il dato assume caratteristiche ancora più inquietanti se si considera che fino al 2019 l’Etiopia era tra i primissimi paesi al mondo per numero di profughi ospitati.

Una guerra lenta

(AP Photo/File)

E poi ci sono i morti: tra i militari e, soprattutto, i civili, sono decine di migliaia. Molti sono vittime di stragi di massa, eccidi eseguiti a ritmi incessanti da entrambe le fazioni in lotta. A quelli caduti sotto i colpi delle armi, si aggiungono i tantissimi vittima dei cosiddetti danni collaterali: fame, assenza di cure, mancati arrivi di aiuti umanitari, carestie indotte dal conflitto, malattie. Nel frattempo, dalla regione del Tigray il conflitto è tracimato verso altre zone e sceso verso sud nelle aree di Wag Hemra e Wollo, a sud ovest nella zona di Gondar, e nell’Afar.

Sul piano militare, per tutto il 2021 l’esercito regolare e le forze di sicurezza di Addis Abeba hanno trovato nelle truppe del Tplf e dell'Esercito di liberazione oromo (Ola), che proprio con il Tplf ha stretto un'alleanza ad agosto, nemici organizzati e all’altezza del confronto. La controffensiva di Abiy che si immaginava rapida si è dimostrata lenta e inceppata e da un certo punto in poi, l’esercito, in ritirata in alcune aree, ha dovuto cedere al nemico pezzi strategici del paese.

Atrocità

A fine ottobre il Tplf annunciava la conquista di due importanti città come Dessie e Kombolcha, e di avere nel mirino – «questione di mesi, se non di settimane» – la stessa capitale. Intanto, tra proclami di guerra e chiamate alle armi di semplici cittadini come quella lanciata dal premier stesso agli abitanti di Addis Abeba a «registrare pistole e fucili in proprio possesso e prepararsi a proteggere i quartieri minacciati dai terroristi», si è giunti a uno stato di terrore permanente le cui vittime preminenti erano i cittadini di origine tigrina in tutto il paese.

Un certo scalpore hanno destato le notizie di arresti sommari di suore e religiosi cattolici, in gran parte tigrini, da parte delle forze di polizia tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. Nel corso di tutto il 2021, poi, si sono susseguiti report di orrende uccisioni o stragi compiute dal Tplf e dei gruppi armati ribelli, così come dall’esercito, a scapito della popolazione civile.

Proprio per questi eventi, il consiglio Onu dei diritti umani, su pressione dell’Unione europea, ha approvato durante una sessione speciale nella giornata del 17 dicembre scorso, una risoluzione per istituire una commissione indipendente che indaghi sulle atrocità commesse nel contesto del conflitto del Tigray dove «si stima che 9 persone su 10 abbiano bisogno di assistenza umanitaria e 400mila circa siano vittime di una pesante carestia aggravata dal fatto che l’arrivo di aiuti umanitari è ancora limitato».

Cambio di rotta

Le ultime settimane hanno segnato un netto cambio di rotta nel corso del conflitto in gran parte grazie all’entrata in campo di alcuni attori internazionali.

La Turchia e la Cina sono venute in soccorso di Abiy che con le due potenze ha siglato un accordo per una fornitura di armi che è alla base della svolta militare in atto dagli inizi di dicembre. In particolare è apparsa decisivo l’utilizzo dei droni di cui l’esercito etiope si è dotato in massa.

I cinesi Wing Loong 2 e i turchi Bayraktar Tb2, assieme a una fornitura minore ma efficace degli iraniani Mujaher-6, hanno condotto l’esercito a rapidi successi sul campo e a una serie di risultati che ribaltano la situazione riportando Abiy in netto vantaggio nella macabra partita che si sta combattendo in Etiopia. La riconquista di Dessie e Kombolcha e la dichiarazione del Tplf di ritiro incondizionato dalle regioni dell’Amhara e dell’Afar per rientrare nel Tigray e «aprire le porte agli aiuti umanitari» e, soprattutto, di cessate il fuoco unilaterale, sono lì a dimostrarlo. Il prezzo da pagare, ovviamente, è alto.

Lontano dall’occidente

Da un punto di vista economico, l’esborso per droni e materiale bellico, va ad aggravare un buco creato dalla guerra che ha fatto precipitare l’Etiopia, fino al 2019 secondo la World Bank uno dei paesi dalla crescita più rapida al mondo con un più 10 per cento minimo stabile, agli ultimi posti delle statistiche di crescita, con un risicato 2 per cento destinato a diminuire già all’inizio del prossimo anno.

Dal punto di vista politico, sposta decisamente l’Etiopia sotto l’influenza di Cina, Turchia e Iran e allontana Abiy dal mondo occidentale fortemente criticato, peraltro, per una campagna mediatica che Addis Abeba ha definito a senso unico. I media statunitensi, in particolare, sono oggetto da mesi di attacchi da parte di esponenti governativi o politici e giornalisti etiopi vicini al premier.

Uno spiraglio di pace

Nel vertice Africa–Turchia tenutosi a Istanbul il 17 e il 18 dicembre, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che nei mesi scorsi ha siglato l’accordo militare per la fornitura di droni, ha avuto un colloquio privato con il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed.

Dopo mesi di pessime notizie, in ogni caso, giunge proprio sul finire dell’anno quella che si attendeva da tempo. Si apre, tra mille contraddizioni, dubbi, rancori, al netto di un numero enorme di morti, sfollati e di una vera e propria emergenza umanitaria, un primo, significativo spiraglio di pace.

Il Tplf, è tornato a casa e ha deposto, per ora, le armi. Ha poi chiesto una no fly zone sul Tigray e un embargo sugli armamenti all’Etiopia e all’Eritrea – nel frattempo divenuta solida alleata di Abiy – e si è rivolto all’Onu per assicurarsi il ritiro delle forze amhara ed eritree dal Tigray occidentale. A fornire carburante alle speranze di tregua e ritorno alla diplomazia, giungono le dichiarazioni della vice-presidente dell’Etiopia Sahle Zwede che, in visita in Costa d’Avorio lo scorso 16 dicembre, ha dichiarato che la situazione nel paese «si sta stabilizzando e a breve ci sarà un dialogo nazionale»

 

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