Niente frena la turbolenza, la inguaribile frammentazione del Caucaso, anche in questo momento di crisi mondiale, con la barbara guerra in Ucraina. Basta il minuscolo, povero, montagnoso Nagorno-Karabakh, grande come mezza Umbria, conteso da Armenia e Azerbaigian, per mettere in allarme di volta in volta i due contendenti diretti, sorretti poi dai rispettivi protettori Russia e Turchia, a cui si accodano Iran e Israele.

Una contesa simile sembra il rompicapo di bambini scatenati e ingovernabili. Il Nagorno-Karabakh è un’isola cristiana inserita dentro il territorio dell’Azerbaigian islamico. È collegata all’Armenia da uno stretto corridoio stradale, bene asfaltato, e dopo i primi chilometri si capisce subito che favorisce imboscate e guerriglia.

Entra nel gioco a forza anche il Naxcivan, una enclave azera conficcata nel sud dell’Armenia, completamente staccata dall’Azerbaigian, ma che per complicare le cose confina anche con Turchia e Iran.

Cartografi sovietici

Questa miscela di etnie, di religioni, di antichi confini amministrativi, e di migrazioni interne è soprattutto una eredità dei cartografi sovietici. Quando Ryszard Kapuściński è capitato qui nel 1990 si preparava una guerra feroce che è finita quattro anni dopo.

Travestito avventurosamente da pilota civile, arrivato nella modesta capitale Stepanakert, desolata allora come oggi, ha trovato un armeno che così raccontava: «Stalin sapeva bene come versare olio sul fuoco. Sapeva che il Nagorno-Karabakh sarebbe sempre stato il pomo della discordia tra turchi e armeni. Per questo, invece di annettere il nostro distretto all’Armenia, lo lasciò nel cuore dell’Azerbaigian, sotto il governo di Baku. Così Mosca sarebbe stata sempre l’arbitro supremo».

C’erano truppe russe allora per la prima guerra di indipendenza a tenere separati i due contendenti, e ci sono ancora oggi duemila uomini di Mosca dislocati tra gli avamposti con la bandiera armena e quella azera. Qui la guerra si assopisce, ma non si spegne mai.

Mikhail Klimentyev, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP

L’Iran

Nei giorni scorsi gli iraniani, allarmati, hanno denunciato ancora una volta che gli azeri concedono la loro base militare di Sitalchai agli israeliani, e ai loro ambiti droni di alta quota.

Le relazioni ostili, e spesso tempestose, tra Teheran e Tel Aviv sono ben note, non sarebbe necessario un supplemento caucasico di litigiosità. È meno noto che il nord iraniano abbia due province indicate ufficialmente come Azerbaigian occidentale e orientale, che la etnia azera sia la seconda del paese, che una buona parte dei pasdaran-guardiani della rivoluzione islamica di Khomeini siano azeri.

Più in generale il governo di Teheran ha dichiarato in varie occasioni che non accetterà mai correzioni nel Caucaso del sud che toccano inevitabilmente anche il suo confine.

Da lì transita tutto il commercio persiano verso i mercati esteri a nord. La miscela tra umore politico, stimoli nazionalisti e tifoseria calcistica trova poi, anche nel mondo dei mullah, un simbolo orgoglioso nella squadra del Traktor di Tabriz, capitale della provincia azera orientale, arrivata ai vertici del campionato iraniano, applaudita anche in Turchia tra i simpatizzanti della destra nazionalista.

AP Photo/Aziz Karimov

La Russia

Da molto tempo gli iraniani sono in buone relazioni con Mosca, per la tecnologia petrolifera, per gli armamenti, per il nucleare. Mentre Teheran protestava per i droni israeliani parcheggiati nella base azera, contemporaneamente anche i russi denunciavano un attacco azero contro i loro soldati impegnati in Nagorno-Karabakh, come forza di interposizione.

Un attacco condotto con droni in questo caso di produzione turca, già decisivi per vincere nel novembre del 2020 contro gli armeni nella guerra dei 44 giorni. Anche l’addestramento militare fornito da Ankara aveva contribuito. Allora, per celebrare la vittoria degli islamici sui cristiani, Erdogan si era recato a Baku accompagnato dai suoi ministri e sfoggiando uomini delle sue truppe scelte.

Questa volta, dopo un pugno di vittime ignote e sacrificate inutilmente, Mosca ha invitato l’Azerbaigian a ritirare i suoi soldati, Baku ha espresso rammarico per queste dichiarazioni, mentre le autorità a Stepanakert hanno imposto la legge marziale.

Ma se l’Azerbaigian prevede di fornire il proprio gas agli europei, in sostituzione parziale di quello russo, deve tener presente che il gasdotto non è così lontano dalla zona di queste scaramucce. Iniziative improvvisate, se non apertamente scriteriate. Mentre sempre in questi giorni, non troppo lontano dalle rive del Mar Nero, l’esercito di Mosca aggredisce con ferocia terra e popolo ucraino.

L’ultima frontiera della guerra fredda

Eppure soltanto ai primi di febbraio era arrivato un segnale più consistente e di segno contrario dal Caucaso. L’ultima frontiera della guerra fredda ancora chiusa – quella tra Turchia e Armenia – finalmente si apriva con cautela.

Non era ancora il via libera alla frontiera terrestre, al traffico stradale e ferroviario di persone e cose, ma almeno erano ripresi i voli tra i due paesi. Anche se la politica armena è sempre la somma di due elementi: il governo di Erevan e la diaspora, due volte più numerosa dei tre milioni di compatrioti rimasti in patria, ben più forte sul piano finanziario, bene introdotta politicamente negli Usa e in Francia, ma anche più rigida nei rapporti con la Turchia.

Proprio la base aerea di Incirlick in territorio turco è stata, dopo la Seconda guerra mondiale, un caposaldo militare per gli americani. Da qui è decollato ai tempi della guerra fredda l’aereo spia di Gary Power, colpito e processato in Russia, seguito da altre missioni strategiche senza pubblicità in medio oriente e in Asia centrale.

Il terreno della base apparteneva un tempo a una famiglia armena, vittima come tante altre un secolo fa del genocidio compiuto e mai ammesso dai turchi. Gli eredi un giorno hanno deciso di chiedere un indennizzo per quel bene sottratto con la violenza.

Ormai la stagione del sultano e quella di Ataturk si erano concluse. Da Ankara hanno risposto che la base godeva di extraterritorialità, che i padroni erano di fatto gli americani. I quali alla richiesta hanno versato alcuni milioni di dollari agli eredi armeni.

La guerra delle mappe

Anche la Georgia ha avuto la sua controversia, per la verità disarmata, con l’Azerbaigian, per una questione di confine e di chiese, finita comunque in tribunale. Sempre nel 2020, mentre il conflitto riprendeva in Nagorno-Karabakh, due cartografi georgiani membri della Commissione per la demarcazione dei confini erano stati accusati di avere danneggiato gli interessi nazionali, utilizzando mappe che attribuivano 34,8 km quadrati del territorio nazionale all’Azerbaigian.

Mappe del periodo 1970-1990 in scala ridotta, poco dettagliata, mentre quelle disegnate nel 1932-1933, con i nomi dei luoghi indicati solo nel 1936 e stampate tra il 1937-1938 su scala quattro volte più precisa assegnavano quel terreno alla Georgia. La contesa esplodeva in pieno clima elettorale, assieme al contagio del Covid, mentre il candidato favorito, di professione miliardario, era contrastato da una sessantina di partiti. Sempre a proposito della inguaribile frantumazione caucasica.

La contestazione geografica aveva anche un forte valore simbolico, riguardava la zona religiosa di David Garedja, un complesso spettacolare di monasteri e piccole chiese ortodosse scavate nella roccia, fondato nel sesto secolo, in una zona desertica, a cavallo del confine.

Lì non esisteva una strada che collegasse georgiani ed azeri, né un vero posto di frontiera, ma tradizionalmente i fedeli ortodossi arrivavano a piedi, esprimevano la loro devozione senza che le autorità di Baku chiedessero nulla. Una zona franca, di tolleranza. Il processo si è celebrato dopo le elezioni, il miliardario è stato rieletto, e poco dopo i due cartografi sono stati assolti.

Il mediatore Erdogan

In queste settimane Erdogan si era proposto come mediatore tra Ucraina e Russia. Dopo le cronache e le immagini da Bucha ha pronunciato parole chiare di condanna e da dieci giorni non parla più di mediazione, ma ha collaborato a salvare i marinai della nave ammiraglia Moskva.

Da tempo l’erede dei sultani è attratto da un risveglio imperiale ottomano, da un progetto panturco attraverso l’Asia, mentre dentro il Cremlino l’erede degli zar si richiama sempre più al mito della grande Russia e insieme sventola la bandiera rossa con falce e martello sui suoi carri armati.

Esattamente un secolo fa sovietici, armeni, georgiani e azeri avevano firmato un trattato con il sultano ormai avviato al tramonto. Da quell’accordo sopravvive ancora un contenzioso, sulla creazione di una sedicesima repubblica sovietico-turca, ricavata da una porzione dell’impero ottomano. A guardare troppo indietro si trovano insidie impolverate ma non spente.

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