L’11 luglio del 1995 la catena di comando al Palazzo di Vetro di New York non diede l'ordine di muovere l'aviazione per fermare i carri armati in marcia. Solo fuori tempo massimo i raid vennero autorizzati, i serbi erano già dentro la città. Da Srebrenica in poi l’Onu ha confermato la sua assoluta inconsistenza. L'irrilevanza a Gaza come in Ucraina è la coda di un processo irreversibile. Eppure il pianeta ha bisogno di un'Onu o di qualunque suo surrogato
In un luogo fuori rotta, tra montagne ricoperte da folti boschi, nelle case di un borgo bucolico dal nome antico che richiama fin dalla radice del nome, Srebrenica, i fasti perduti di una miniera d'argento (srebro) di epoca romana, si consumò definitivamente, trent'anni fa, l'11 luglio del 1995, la distruzione di un modo di stare al mondo come l'avevamo conosciuto.
Chi scrive aveva appena consegnato all'editore un libro, scritto con Zlatko Dizdarevic, che avrebbe avuto come titolo L'Onu è morta a Sarajevo. Ci fu il tempo di aggiungere nel testo, prima che andasse in stampa, «ed è stata sepolta a Srebrenica».
L'Onu, per quanto pletorica e farraginosa, era l'organizzazione che aveva gestito l'ordine così come era stato concepito dai vincitori della Seconda guerra mondiale. Aveva svolto la sua missione persino con profitto fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Benché ammaccata godeva ancora di un minimo di reputazione prima che la missione cosiddetta “di pace” dei suoi caschi blu in Bosnia ne dimostrasse l'obsolescenza.
La Risoluzione 819
Non era l'Onu a essere cambiata, ma il contesto internazionale che l'aveva prodotta. Da allora, da Srebrenica, ha confermato la sua assoluta inconsistenza. L'irrilevanza certificata a Gaza come in Ucraina è la coda di un processo di putrefazione purtroppo irreversibile. Queste parole non dovrebbero suonare accusatorie ma amare. Perché il pianeta ha bisogno di un'Onu o di qualunque suo surrogato.
Il 16 aprile del 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva pomposamente proclamato con la Risoluzione 819 Srebrenica e altre città bosniache (Sarajevo, Gorazde, Zepa, Tuzla e Bihac) “zone protette”. Perché fossero protette andavano smilitarizzate. Compito che toccò, a Srebrenica, al generale francese Philippe Morillon. Il quale pretese la consegna delle armi dei difensori del borgo bosgnacchi (o musulmani di Bosnia) accerchiati dalle milizie serbe. Alla popolazione che non lo voleva lasciare partire dopo la sua visita nel timore che via lui sarebbe successo il peggio, aveva solennemente giurato: «Saremo noi a proteggervi».
Srebrenica era il punto di riferimento per tutta l'area circostante e la sua popolazione, lievitata da 15 mila a 60 mila persone, sfollati dei villaggi vicini. La sua “colpa” agli occhi degli architetti dell'ideologia della “Grande Serbia” stava in qualcosa di immutabile: la posizione geografica, a dieci chilometri dalla Drina il fiume che segna il confine tra la Bosnia e la Serbia e in una zona della Bosnia abitata a maggioranza dai serbi.
Dunque da “ripulire” della presenza dei musulmani in vista, magari, di una futura annessione alla madre patria di là dalle acque del fiume. Secondo l'idea dominante nei Balcani negli Anni 90, e diffusa ancora oggi, bisognava «separare i vivi o contare i morti». Non sta forse alla radice del progetto di Putin quando sostiene di voler riunire tutti i russi in uno Stato? O di Netanyahu quando, resa impossibile la soluzione dei due Stati, rifiutato lo Stato binazionale, sta pensando di cacciare tutti i palestinesi da Gaza e magari domani dalla Cisgiordania?
La periferia che periferia non era
È per queste assonanze con la contemporaneità che il trentesimo anniversario da Srebrenica sta godendo di un'attenzione maggiore rispetto al passato. L'anno scorso l'Assemblea generale delle Nazioni Unite lo definì «genocidio», stesso termine usato in diverse sentenze del tribunale penale internazionale. Non avendo appreso quella lezione, i tentativi di genocidio si sono succeduti sino a farci pentire della nostra cecità.
Le guerre nei Balcani erano considerate periferiche, non in grado di rovinare il sogno del resto d'Europa di una pace perpetua kantiana, semmai bisognava solo stendere un cordone sanitario attorno all'area infettata dal virus nazionalista per restare immuni. In realtà il virus era già dilagato e i Balcani annunciavano il nostro futuro.
Ma cosa successe a Srebrenica? Con lo scopo di ripulire etnicamente tutto il territorio a ridosso della Drina, le truppe del generale serbo Ratko Madic mossero verso l'enclave protetta in teoria da 320 caschi blu olandesi. Gli olandesi anziché porre un argine all'aggressione si ritirarono nella loro base di Potocari consegnando docilmente la popolazione nelle mani della soldataglia serba. Sarebbe tuttavia ingiusto riversare tutta l'ignominia su quei soldati dell'Onu, lasciati anche loro soli.
La catena di comando che partiva dal Palazzo di Vetro di New York non diede mai l'ordine di muovere l'aviazione per fermare i carri armati in marcia verso Srebrenica. Né tale iniziativa prese Yasushi Akashi, il giapponese inviato speciale del segretario generale Boutros Boutros-Ghali. E analogamente i comandanti dei caschi blu di stanza a Zagabria. Solo fuori tempo massimo i raid vennero autorizzati, ma impossibilitati ad essere efficaci perché i serbi si trovavano già dentro Srebrenica. Era l'11 luglio 1995.
Cosa accadde
Una parte di uomini, timorosi del peggio, cercarono la salvezza con una marcia, un vero esodo biblico, verso il territorio libero di Tuzla. In decine di migliaia si riversarono nella base di Potocari nella vana speranza che i soldati blu potessero salvarli. Il generale Mladic, ripreso dalle telecamere mentre accarezzava la testa bionda di un bambino e gli donava delle caramelle, ordinò che fossero separati gli uomini (compresi gli adolescenti sopra i 12 anni giudicati in gradi di combattere) dalle donne e dai bambini.
Avviò i primi allo stadio di Bratunac che da campo di calcio si trasformò in campo di concentramento. Le donne e i bambini furono ammassati su autobus che li portarono verso la libertà. Le torture sugli uomini e le sevizie sulle donne a Potocari vennero documentate da un video girato dagli olandesi e distrutto agli stessi autori, secondo il capo di Stato maggiore di Amsterdam Hans Couzy. Cancellato dai comandanti secondo un'inchiesta della Bbc.
Ciò che avvenne dopo è stato documentato dallo splendido libro Metodo Srebrenica di Ivica Dikic (Bottega errante editore). Mladic diede l'incarico al colonnello Ljubisa Beara di organizzare, gestire e portare a termine il genocidio nel più breve tempo possibile. Più di ottomila musulmani di Bosnia vennero uccisi nello spazio di tre giorni e i loro cadaveri fatti scomparire in fosse comuni sparse in tutta l'area circostante.
Benché se ne avesse sentore da subito, l'entità del massacro fu chiara solo dopo alcuni mesi quando, grazie a rilevamenti satellitari si scoprirono le fosse comuni. Per il reato di genocidio sono stati condannati all'ergastolo il generale Mladic, il presidente della cosiddetta Repubblica serba di Bosnia Erzegovina Radovan Karadzic, il colonnello Beara oltre a diversi altri ufficiali.
A Potocari è stato eretto un memoriale che si estende a perdita d'occhio e comprende decine di prati dove ogni stele bianca a forma di parallelepipedo porta il nome di una vittima. Migliaia degli assassinati (non ancora tutti) hanno potuto avere un nome grazie alle moderne tecniche di ricostruzione del dna e all'opera degli anatomo-patologi di trentadue Paesi del mondo. Trent'anni dopo, il loro lavoro continua.
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