«L’impegno della politica sta crescendo. L’impegno delle istituzioni c’è», ha dichiarato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a proposito dei diciotto pescatori di Mazara del Vallo sequestrati a Bengasi, in Libia, da ormai più di cento giorni. Sul caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ammazzato al Cairo e secondo la procura di Roma «seviziato per giorni con lame e bastoni», da un generale e quattro colonnelli egiziani, Conte non può dire che la politica e le istituzioni ci stiano mettendo lo stesso impegno. E infatti non lo ha detto. Ieri durante la conferenza stampa al termine del Consiglio europeo, quando gli hanno fatto la domanda che poteva aspettarsi – cosa avrebbe fatto il governo sul caso Regeni – il premier ha spiegato cosa farà invece la magistratura. «Avremo la possibilità di celebrare un processo italiano per assicurare la verità su una morte avvenuta con modalità efferate e particolarmente cruente e crudeli», ha detto, come a farsi scudo dell’iniziativa dei magistrati. E poi ha aggiunto che il governo avrà la possibilità di prendere ogni iniziativa, confermando che per il momento non ne prenderà alcuna. I due casi, quello su cui Conte rivendica interventismo e quello su cui si guarda bene dal farlo, sono all’apparenza distanti, ma in realtà li lega un filo nemmeno tanto sottile se osservati con gli occhi di chi si occupa di relazioni internazionali.

Prigionieri di Haftar 

I pescatori siciliani sono stati sequestrati dalle milizie libiche a 40 miglia dalla città di Bengasi, capoluogo della Cirenaica, divenuta prima roccaforte jihadista e poi la base di potere di Khalifa Haftar, il generale che della lotta all’Isis in Libia voleva fare la sua bandiera per arrivare poi a prendersi il paese. Sostenuto dai sauditi, dai russi, dai francesi e dagli egiziani, Haftar ha guastato e poi costretto a rivedere le strategie diplomatiche italiane. L’Italia, come l’Unione europea, ha sempre sostenuto il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite di Fayez al Serraj, cosa che non ha impedito al presidente francese, Emmanuel Macron, di schierarsi sul fronte opposto e a fianco di Al Sisi, che Macron ha premiato addirittura con la legione d’onore all’Eliseo pochi giorni fa.

Di fronte all’ascesa militare di Haftar, l’Italia ha cercato di recuperare le posizioni perse cercando di diventare mediatrice. Alla fine dello scorso anno il tentativo di Conte di ricevere entrambi i leader dopo l’occupazione della città di Sirte da parte di Haftar è fallito, e quando il governo di Serraj ha chiesto a Italia ed Europa di intervenire in sua difesa, a rispondergli è arrivato Recer Tayyp Erdogan, il presidente turco, uno dei più abili occupanti di vuoti politici e militari. Da allora Haftar ha perso molte posizioni ed è lui ora ad avere bisogno di sostegno. E chiede anche quello italiano.

Il caso dei pescatori sequestrati, che dovrebbero essere giudicati da un tribunale militare di Bengasi, si inserisce in questo quadro complicato. A Mazara le famiglie protestano: due giorni fa sono arrivate a manifestare sotto la casa dei genitori del ministro Alfonso Bonafede. E la vicenda è diventata oggetto di lotta e sgambetti politici: non a caso il più agitato degli avversari interni di Conte, Matteo Renzi, ha citato in aula la vicenda con un riferimento ai servizi segreti. In realtà il direttore dell’Agenzia per i servizi esterni (Aise) Gianni Caravelli, nominato da Conte a maggio dell’anno passato e lasciato dalla politica ancora senza due vicedirettori, sta lavorando per riportare i connazionali a casa per Natale.

Al nostro paese poi, non mancano certo contatti in Libia. Ma il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha detto che il fatto che il gruppo si trovi ancora a Bengasi «ne fa un caso a metà strada tra fermo e rapimento. Perché stiamo lavorando con un’autorità non riconosciuta, che è quella dell’est della Libia, con un esercito autoproclamato, lo stiamo facendo usando l’intelligence e il corpo diplomatico». Eppure quella autorità non riconosciuta è stata invitata in Italia due volte. Di Maio ha anche aggiunto che lui e il presidente del Consiglio Conte avrebbero aperto un dialogo con i principali paesi che hanno influenza nell’area.

Di Maio tentenna

L’Egitto di Al Sisi, protettore di Haftar, sulla carta dovrebbe essere incluso, anche se un suo coinvolgimento, considerando tutte le questioni aperte, non è affatto scontato. Nei regimi come quello egiziano, la dipendenza reciproca tra leadership militare e politica è una costante che torna spesso. Il ministro degli Esteri, che alla Farnesina si è voluto portare le deleghe (e i funzionari) al commercio estero, con Al Sisi ha sempre intrattenuto ottimi rapporti, quantomeno economici: la sua prima visita da ministro dello Sviluppo economico fu proprio al Cairo a oliare gli ingranaggi delle relazioni delle partecipate di stato come Eni e Fincantieri, e non solo di quelle. Quest’estate, quando gli hanno chiesto conto della vendita delle fregate di fabbricazione italiana al regime, ha detto laconico: «Valutiamo caso per caso». Di fronte all’atto di accusa della procura di Roma ha commentato: «Chiediamo al Cairo un chiaro cambio di passo. Basta tentennamenti. Basta attese». La lezione di entrambe queste vicende è una, dice un diplomatico di lungo corso: «Affidarsi alla diplomazia o ai servizi non funziona se non ci sono segnali politici forti».

 

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