I voucher, l’estensione dei contratti a tempo determinato, l’assegno di inclusione assai meno generoso del reddito di cittadinanza, prima ancora la flat tax. C’è una linea di coerenza del governo che dipinge un’adesione convinta al liberismo in economia, con provvedimenti che prefigurano un’ulteriore precarizzazione del lavoro, regali agli imprenditori e in generale ai ceti medi e medio-alti, la punizione dei disagiati. Insomma una fiducia cieca alla famosa mano regolatrice del mercato. E senza alcun intervento sulle grandi fortune come per esempio l’introduzione di tasse per i colossi americani e cinesi che fanno affari sul nostro territorio per poi rifugiarsi in Paesi più generosi per il pagamento delle imposte, mentre è sparita dall’agenda la lotta all’evasione fiscale, un cancro italiano non da oggi.

Si tratta di una svolta anzitutto ideologica. Giorgia Meloni è entrata a palazzo Chigi da alfiere della destra sociale e si è subito adeguata ai decori e agli stucchi dell’opulenza alto borghese come da agio dimostrato nel video-propaganda girato nelle sale attigue a quella del Consiglio dei ministri. Bisogna dimenticarsi della underdog cresciuta nutrendosi con le teorie sul “socialismo tricolore” dei missini Giano Accame e Beppe Niccolai, fortificata dalle battaglie per i diseredati delle periferie e più in generale degli ultimi della terra (purché italiani). È andato in soffitta l’intervento statale in economia per correggere il liberismo puro che provoca il crescere delle disuguaglianze.

La presidente del Consiglio lo ha detto espressamente agli imprenditori: «Non va disturbato chi produce». Ci sarebbe poi, in controtendenza, il taglio di quattro punti del cuneo fiscale per i redditi più bassi, cento euro in più nelle tasche dei dipendenti (sessanta secondo i sindacati), una mancia se i dati Ocse ci dicono che l’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990 e al potere d’acquisto è andata ovviamente peggio. I prezzi dei generi di prima necessità aumentano e l’inflazione nel mese di aprile è salita all’8,3 per cento contro una media dell’Eurozona che si attesta attorno al 7 per cento. Sarebbe tuttavia ingeneroso attribuire colpe esclusive al governo in carica da pochi mesi se siamo Cenerentola tra le nazioni più sviluppate quanto a stipendi medi.

Per recuperare il gap non basterebbero nemmeno 500 euro, altro che 100 (o 60), salto in avanti che di tutta evidenza non ci possiamo permettere pena una perdita immediata di competitività. Quella che si può rimproverare all’esecutivo è una filosofia, una tendenza, come si è visto, ad allocare le poche risorse nel modo sbagliato e che sicuramente non corregge ma amplifica le storture ereditate da chi li ha preceduti. Non è solo la destra ad aver sposato acriticamente il mercato ma pressoché tutto l’arco parlamentare.

La Cina nel Wto

Il problema è antico. Risale grosso modo ai tempi della caduta del Muro di Berlino e, più tardi, all’ingresso della Cina nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. L’ubriacatura della poderosa globalizzazione aveva illuso in un illimitato progresso di cui l’intero pianeta avrebbe goduto, gli Stati ricchi perché possono disporre di merce a basso costo, quelli poveri perché avrebbero gradualmente goduto di maggiore benessere. Il Pil globale è in effetti cresciuto, centinaia di milioni di persone sono uscite dalla fascia dell’indigenza.

Ma nei tempi medi è stato proprio il primo mondo a subire dei contraccolpi che determinano la situazione attuale. La delocalizzazione ha indotto le imprese a spostare le produzioni dove il costo del lavoro è conveniente, anche a causa degli scarsi o nulli diritti dei lavoratori, qui conquistati al prezzo di dure battaglie durate secoli. Un dumping sociale che si pensava potesse essere azzerato in un paio di generazioni grazie alla crescita di una coscienza sindacale laddove prima non esisteva. Ma senza tenere conto di un’implacabile eppure semplice legge del mercato. Finché il mercato del lavoro era nazionale l’offerta di occupazione eccedeva la domanda, a tutto vantaggio dei dipendenti e dunque delle loro rappresentanze sindacali, basti ricordare le massicce migrazioni dal meridione al nord.

Quando il mercato è diventato globale, la situazione si è capovolta, l’operaio italiano si è trovato a dover giocare una competizione impari con il suo omologo cinese, i sindacati hanno perso potere e prestigio. Anziché alzarsi il livello dei diritti in Cina è diminuito in Italia. Chi capì per primo il pericolo fu Barack Obama. Il quale varò una politica definita “socialista” per reindustrializzare gli Stati Uniti con generosi incentivi alle imprese purché restassero sul territorio o vi tornassero dai luoghi in cui avevano cercato manodopera a infimo costo (ricordate l’accordo Fiat-Chrysler?). Il vento trumpista che spirò non solo in America ma in buona parte dell’occidente, spazzò via ben presto il tentativo obamiano di ridare alla politica il primato che aveva perso a vantaggio dei mercati e della finanza, i veri vincitori della globalizzazione con la possibilità di spostare capitali dovunque facesse loro più comodo. Le grandi corporation contano ormai più degli Stati, indirizzano, impongono le scelte in virtù di un potere decisionale consolidato e ne traggono profitti enormi.

La vera sfida per Giorgia Meloni così come per i suoi omologhi che governano in Europa non è quella di cercare di lenire con qualche pannicello caldo le sofferenze di chi fatica ad arrivare alla terza settimana. La vera sfida è un cambio di paradigma che rimetta la la redistribuzione delle ricchezze al centro del programma. Per farlo è obbligatorio ridare alla politica il suo primato. Vasto programma e di lunga durata ma necessario se vogliamo dare un futuro alle giovani generazioni, le più penalizzate dall’ingordigia dei padri. Impossibile da realizzare se si è scelto di abbandonare, come pare la premier abbia fatto, qualunque idea di giustizia sociale.
 

© Riproduzione riservata