Se, come è probabile, la visita di stato in Cina di Benjamin Netanyahu, prevista per la fine dell’anno, verrà cancellata, non sarà soltanto perché dall’altro ieri il premier si è ritrovato al comando del gabinetto di guerra impegnato in una delle battaglie più cruciali della storia di Israele. Ma anche perché i sommovimenti geopolitici che hanno preceduto questo ennesimo, per molti aspetti inedito, terremoto mediorientale stanno destabilizzando il rapporto tra Pechino e Tel Aviv.

Mentre le altre potenze sostengono il diritto di Israele all’offensiva contro Gaza, la Cina (con la Russia) chiede un cessate il fuoco immediato e la nascita di uno stato palestinese. Ieri lo ha ribadito Wang Yi, alla vigilia della riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Conferenza di pace

Il ministro degli Esteri di Pechino ha sostenuto che «Il nocciolo della questione è che non è stata fatta giustizia al popolo palestinese», riproponendo il piano in tre punti presentato a giugno da Xi Jinping, che prevede una conferenza di pace internazionale “allargata” (nella quale cioè venga diluito il peso degli Usa), aiuti allo sviluppo per i palestinesi e, infine, la nascita di uno stato indipendente nei territori occupati nel 1967, con Gerusalemme est come capitale.

Non proprio musica per le orecchie di Netanyahu, nel giorno in cui a Pechino un diplomatico dell’ambasciata israeliana è stato ferito in circostanze ancora da chiarire. I media israeliani hanno parlato di possibile attacco terroristico: ieri era il venerdì in cui Hamas aveva invitato a colpire obiettivi israeliani in tutto il mondo.

Nel filmato ripreso con un cellulare da un balcone si vede il funzionario approcciato da un uomo che gli assesta una serie di pugnalate alla spalla e al torace, prima di allontanarsi indisturbato, in un’area a circa 1,5 chilometri dall’ambasciata.

Due giorni fa, l’ambasciatrice israeliana in Cina, Irit Ben-Abba, aveva esortato Pechino a usare la sua influenza sull’Iran per fermare Hamas, sostenendo che Teheran è «decisamente molto coinvolta in quanto è accaduto».

Raffreddamento

Stigmatizzando il massacro di sabato scorso, Pechino non ha condannato Hamas, che spera di coinvolgere in un futuro negoziato, come in Afghanistan, dove la Cina ha partecipato ai colloqui tra le diverse fazioni, per poi chiedere ai talebani di abbandonare il terrorismo in cambio degli investimenti della nuova via della Seta. Secondo Wu Sike, «Hamas gode di un consenso di massa nella popolazione palestinese».

Per l’ex inviato di Pechino per la regione - tra gli esperti cinesi che meglio conoscono il Medio Oriente - nonostante «la sua assoluta superiorità militare, Israele non potrà raggiungere una pace duratura soggiogando i palestinesi».

Ora però, al di là dei proclami - in parte retaggio dall’amicizia tra la Cina maoista e i movimenti di liberazione negli anni Sessanta e Settanta - il nuovo conflitto a Gaza, che rischia di allargarsi all’intera regione, mette duramente alla prova la diplomazia di Xi in un’area nella quale aveva appena iniziato a proporsi come “pacificatrice” alternativa al tradizionale broker statunitense.

La stretta di mano a Pechino tra iraniani e sauditi a marzo, a settembre la riabilitazione della Siria degli Assad ammessa nella nuova via della Seta, la posizione “eterodossa” sul conflitto in corso a Gaza sono tutte mosse che mirano a consolidare la posizione di Pechino, che nell’area ha interessi crescenti, legati all’importazione di greggio da e agli investimenti tecnologici e infrastrutturali nei paesi arabi, al passaggio della Belt and Road Initiative verso il Mediterraneo e l’Africa.

All’interno di questo disegno i cinesi avevano provato a coinvolgere anche Israele, con il quale fino al 2020 le relazioni bilaterali erano in piena fioritura.

Quell’anno però, il 13 maggio, sbarcò a Tel Aviv il segretario di stato di Trump ed ex capo della Cia Mike Pompeo, per recapitare a Israele un messaggio inequivocabile: basta scambi hi-tech con Pechino e investimenti infrastrutturali cinesi in Israele. Da allora per Netanyahu è stato via via più difficile tenere il piede in due scarpe.

E in quest’ultima tragica settimana la tensione con la Cina è esplosa.

Secondo Galia Lavi «il governo dovrà riconsiderare la politica nei confronti della Cina». Secondo l’esperta di relazioni Usa-Cina dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, «Israele era molto disposto ad accettare gli investimenti e cinesi qui, e abbiamo guardato dall’altra parte quando hanno sostenuto i palestinesi, ma questo è troppo. Sono andati troppo oltre».

© Riproduzione riservata