Da almeno vent’anni, dunque da ben prima della tragica comparsa dello stato islamico, l’incubo della Francia è che il conflitto israelo-palestinese si trasferisca per imitazione nelle proprie strade. Non per caso Emmanuel Macron giovedì sera era andato in tv per raccomandare ai suo cittadini di evitare di importare lo scontro in atto in Medio Oriente e di «restare uniti»: un chiaro riferimento alla sinistra radicale di France Insoumise e alle sue esitazioni nel condannare il terrorismo di Hamas.

Macron era cosciente dei rischi. Da sabato scorso, dalla carneficina nel sud di Israele, si sono già contati in Francia alcune decine di atti antisemiti e il ministro dell’Interno Darmanin ha vietato le manifestazioni pro-palestinesi.

Ieri l’episodio più grave con l’omicidio ad Arras, nel Nord, di un professore del liceo Gambetta accoltellato alla gola da un ventenne ceceno, ex allievo della scuola, schedato dai servizi con la lettera «S», cioè come radicalizzato, e infatti ha urlato durante l’aggressione «Allah u Akbar». Non un lupo solitario, stando alle prime indagini, ma inserito in un gruppo di conterranei e correligionari che avevano già colpito.

Per ragioni demografiche la Francia è un sismografo sensibile in Europa alle turbolenze in Terra Santa. Conta quasi sei milioni di musulmani (tra cui centomila convertiti) e 500 mila ebrei (terza comunità al mondo dopo Israele e Stati Uniti). Fu all’inizio del nuovo millennio, con l’esplodere della seconda intifada nei territori occupati e poi con l’invasione americana dell’Iraq contro la quale peraltro il presidente Jacques Chirac si schierò, che l’Esagono scoprì di avere un problema in casa.

Non che non ci fossero stati attriti in precedenza o addirittura attentati (9 agosto 1982, attacco di un commando di Fatah al ristorante ebraico Jo Goldenberg nel Marais, sei vittime), ma aumentarono in quel periodo in modo esponenziale attacchi antisemiti fino a raggiungere costantemente e fino ai giorni nostri l’impressionante numero di circa cinquecento l’anno.

All’epoca si era puntato l’indice sulle parabole satellitari che punteggiano le case di ogni banlieue e che quotidianamente diffondono la propaganda islamista trovando orecchie accoglienti soprattutto nella terza generazione di immigrati. Giovani cresciuti nella promessa di essere considerati pienamente francesi e che si sentono traditi dalla patria d’adozione perché relegati in una sorta di ghetti e con scarse prospettive di promozione sociale. Così riscoprono l’identità dei padri e sono attratti dalle sirene più estremiste.

L’adesione ai gruppi jihadisti toccò il suo apice al sorgere della meteora dello stato islamico, l’offerta di un paradiso in terra che stregò almeno 1500 ragazzi francesi scesi in Siria e in Iraq a combattere per Abu Bakr al Baghdadi.

Per poi importare la guerra santa a Parigi, Nizza per ricordare solo i massacri più efferati. La fine del califfato ha attenuato non eliminato gli attacchi di terrorismo. Tra due giorni (16 ottobre) sarà il terzo anniversario della decapitazione di un altro insegnante, Samuel Paty. E sempre nel 2020 a una donna è stata tagliata la testa nella cattedrale di Nizza da un terrorista che aveva appena compiuto altri due omicidi.

Ecco perché dopo il sabato di sangue in Israele, la preoccupazione è massima. E condivisa dalla popolazione. Stando a un fresco sondaggi del Figaro l’80 per cento dei francesi teme un attentato sul suolo nazionale. Il trauma del Bataclan non è ancora stato superato.

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