«Farò qualsiasi cosa, a qualsiasi costo», dice Boris Johnson davanti ai cronisti assiepati per ascoltarlo all’aeroporto di Lydd, in Kent. Prima di presentarsi alla stampa, il premier britannico si è fatto fotografare al fianco di droni, velivoli e apparecchiature di sorveglianza che il Regno Unito farà volare sul canale della Manica per controllare i flussi migratori. Poi Johnson ha scandito bene quelle tre parole: «Whatever it takes». «So che il mio piano incontrerà ostacoli ma farò di tutto per portarlo avanti». Johnson si riferisce al piano per «fermare l’immigrazione illegale» che si traduce in un memorandum di intesa siglato con il Ruanda per inviare nel paese africano chi tenta l’approdo nel Regno Unito in cerca di protezione e asilo. Ma attivisti per i diritti umani, politici di opposizione, persino premier e giornalisti, sono convinti che il vero piano di Johnson sia un altro: dirottare l’attenzione dai suoi problemi interni, dallo scandalo delle feste, dalla crisi nella maggioranza. Salvarsi la poltrona, insomma, whatever it takes. La strategia del resto è collaudata: da quando il partito conservatore si è rivoltato contro il premier, Boris Johnson ha plasmato l’uscita dalle restrizioni Covid di conseguenza. Poi ha catalizzato tutte le attenzioni sulla guerra in Ucraina.

E ora rispolvera il suo vecchio cavallo di battaglia, come lui stesso dichiara: «La gente ha votato per il controllo delle frontiere, ha votato per Brexit e per riprendersi il controllo». Cita il suo slogan brexitaro, “take back control”, e spera che gli porti ancora fortuna e consenso, nel pieno della sua lotta per «mantenere il controllo» e la premiership.

Il memorandum ruandese

Il partenariato con il Ruanda è stato siglato dalla ministra degli Interni Priti Patel e comporta l’esborso di denaro da parte del Regno Unito in cambio dell’esternalizzazione della gestione di migranti e richiedenti asilo al Ruanda. Il piano presentato dal governo, recita la comunicazione ufficiale di Downing Street, «farà sì che le procedure di richiesta di asilo da parte dei migranti che fanno viaggi pericolosi o illegali, su piccole imbarcazioni o nascosti nei camion, siano processate in Ruanda. Chi vedrà la propria richiesta accettata potrà costruire una nuova, prosperosa vita in una delle economie che crescono più rapidamente, riconosciuta per il modo in cui accoglie e integra i migranti». Il Regno Unito spende subito circa 145 milioni di euro «per lo sviluppo economico del Ruanda», e successivamente altri fondi per «supportare le operazioni di asilo, integrazione, in modo similare ai costi che sarebbero spesi in UK per questi servizi».

Esternalizzare i rifugiati

«Sono convinto che questa eccitante partnership con il Ruanda diventerà un nuovo standard internazionale», dice Boris Johnson. In realtà, anche se la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson condanna l’iniziativa britannica perché «esternalizzare le procedure di asilo non è una politica migratoria degna né umana», la scelta londinese non è affatto inedita. Così come Johnson confeziona il suo piano ruandese come un piano «per colpire i trafficanti di migranti», così Ylva Johansson alla fine del 2021 parlava della «lotta ai trafficanti condotta assieme alla Turchia». «Sia chiaro, non paghiamo la Turchia, paghiamo per i rifugiati», ha precisato la Commissaria dovendo spiegare all’Europarlamento come mai l’Ue continuasse a dare fondi a Recep Tayyp Erdogan per i rifugiati. Fondi che il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha confermato al presidente turco nella sua recente visita ad Ankara. La Danimarca, stato membro dell’Ue, già un anno fa ha suscitato gli allarmi delle organizzazioni per i diritti umani: a maggio 2021 il governo ha firmato un memorandum con il Ruanda, una partnership economica che preludeva all’esternalizzazione della gestione dei rifugiati, come ora fa Londra.

I punti critici

Il primo grande inganno retorico di Johnson è che il premier inquadra il piano come «contro l’immigrazione illegale» riconducendo in questa categoria le persone che vogliono presentare richiesta di asilo. Interrogata sul punto, l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) conferma che «il diritto internazionale obbliga gli stati a dare accesso al proprio territorio e la possibilità di fare domanda di protezione internazionale a chi è costretto a fuggire. Dunque chi fa domanda di asilo non può essere considerato “illegale”». Illegale è semmai il comportamento di un governo che rifiuti di attivare le procedure di asilo. I diritti vanno garantiti, non possono essere esternalizzati. «I piani per esternalizzare asilo e protezione dei rifugiati in un paese terzo, come quelli perseguiti da alcuni paesi europei, e ora il Regno Unito, possono mettere in moto un processo di graduale erosione del sistema di protezione internazionale», dice Unhcr, il cui alto commissario Filippo Grandi contesta le pratiche di esternalizzazione.

Questione di diritti

«La lotta al traffico di esseri umani è la foglia di fico che Johnson usa per erodere i diritti», dice Riccardo Noury. Amnesty International, di cui è portavoce, «parteciperà alla battaglia legale per fermare il piano Johnson». Preoccupa che «il Ruanda diventi come Papua Nuova Guinea o l’isola di Nauru: qui l’Australia ha esternalizzato le procedure d’asilo, e le isole si sono trasformate in luoghi di detenzione in cui le persone sono trattenute a tempo indefinito, in condizioni talmente crudeli che le due isole hanno registrato i tassi di malattia mentale più alti al mondo». Esistono del resto precedenti allarmanti che riguardano il Ruanda stesso: nel 2013 ha siglato un accordo segreto con Israele per il riallocamento di rifugiati. E nel 2018, quando il quotidiano Haaretz lo ha portato alla luce, ha raccolto testimonianze di questo tenore: «Il Ruanda per me si è rivelato una prigione». Il testo completo del memorandum tra Regno Unito e Ruanda chiarisce peraltro che il trasferimento in volo per oltre 7mila chilometri non è inteso solo per sbrigare le pratiche, ma perché sia il Ruanda a concedere asilo in quella che il governo britannico definisce come «una delle economie in più rapida crescita». Eppure, quando Human Rights Watch ha denunciato, nel suo report relativo al 2020, le condizioni di detenzione arbitraria, malattia e persino tortura subìte nei centri ruandesi, all’epoca anche il governo britannico ha espresso disappunto.

I tempi e la crisi

Johnson sa che il suo piano «sarà oggetto di una battaglia legale». Lo dichiara, lo ha messo in conto, così come ha messo in conto lo scontro politico che la sua iniziativa sta provocando. I laburisti la definiscono «vergognosa», altrettanto fa la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon, e pure tra i conservatori c’è chi dissente. L’ex presidente di partito ed ex ministra Sayeeda Warsi definisce «cinica, e squisitamente politica» la tempistica scelta da Johnson per presentare il piano ruandese, che il premier dice essere in cantiere «da nove mesi». Come mai Downing Street ha scelto di condurre proprio ora una battaglia sul tema migratorio, ripercorrendo la strategia rivelatasi di successo nella campagna per Brexit? Quel che è certo è che proprio questa settimana è tornato ad abbattersi su Johnson lo scandalo delle feste, tenutesi a Downing Street a dispetto delle restrizioni Covid imposte dal suo stesso governo. «Signor primo ministro, quante multe ha ricevuto esattamente dalla polizia metropolitana per quelle feste?». E ancora, «lei ritiene davvero di avere in questo momento l’autorevolezza morale per venire qui a presentarci i suoi piani per il Ruanda?». Sono alcune domande che gli sono state rivolte dai cronisti britannici, alle quali Johnson ha risposto sempre e solo: «Riferirò nei prossimi giorni al parlamento». Intanto l’indagine prosegue, la fronda interna al partito si imbizzarrisce, il ministro della Giustizia David Wolfson si dimette, e chissà se basterà la fuga in Ruanda a salvare la poltrona al premier.

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