Non ci sono solo i processi di Donald Trump nella politica americana. Fino a ieri, anche il presidente in carica Joe Biden fino a ieri, aveva un processo a carico. Le indagini, condotte dal procuratore speciale Robert Kyong Hur, riguardavano la sottrazione di documenti riservati negli anni in cui era il vicepresidente di Barack Obama.

Il risultato positivo per Biden del lungo report pubblicato nella giornata di giovedì è che non ci saranno incriminazioni in arrivo per il presidente in carica.

La cattiva notizia è contenuta nelle motivazioni per cui il presidente non verrà imputato per il reato di occultamento di documenti riservati, cosa che secondo Hur è avvenuta «volontariamente» ma senza dolo: il parere del procuratore è che una giuria «faticherebbe» a incriminare Biden perché «ha limitazioni significative nella memoria».

Una dichiarazione politicamente esplosiva che ha scatenato la reazione dei repubblicani, che vogliono appellarsi al 25esimo emendamento della Costituzione per dimostrare che è incapace di guidare il paese.

L’origine dell’indagine

Per capire meglio come siamo arrivati a questo punto però bisogna ripercorrere la vicenda dall’inizio, al momento in cui le carte sono state ritrovate al Penn Biden Center, un think tank della capitale Washington, il 2 novembre 2022 e sono poi stati immediatamente consegnati al dipartimento di giustizia.

Il 12 gennaio successivo, altre sei file sono stati rinvenuti nella casa di famiglia di Biden in Delaware dopo che l’inquilino della Casa Bianca aveva chiesto volontariamente di ispezionarla.

Lo stesso giorno il procuratore generale Merrick Garland aveva nominato proprio Hur per condurre le indagini per una ragione: nessuno avrebbe potuto dubitare della sua indipendenza, dato che per quasi tre anni, dal 2018 al 2021, era stato un procuratore distrettuale in Maryland durante l’amministrazione Trump. Questo dato però, abbinato al fatto che Hur ha rimarcato carenza di memoria del presidente rammentando persino che «non ricordava l’anno della morte del figlio Beau», avvenuta nel 2015, né gli anni nei quali è stato vicepresidente, è stato notato da alcuni commentatori progressisti come la prova che il giudizio di Hur è viziato da preconcetti di natura politica.

Poche ore dopo, gli avvocati personali di Biden, Bob Bauer e Richard Sauber, hanno confutato la versione di Hur, affermando che il suo giudizio, oltre a essere «inappropriato» non tiene conto di un evento comune tra i testimoni: il non ricordare con precisione quando sia avvenuto un fatto diversi anni prima.

Il presidente, in un comunicato rilasciato a riguardo delle indagini di Hur, ha ricordato che si è sottoposto all’interrogatorio con il procuratore speciale l’8 e il 9 ottobre scorso per cinque ore, anche se il 7 c’era stato l’attacco di Hamas a Israele dalla Striscia di Gaza, decisione presa per «chiudere ogni pendenza».

La conferenza stampa

Fin qui ci sarebbe stata soltanto una nuova linea di attacco per la campagna elettorale dei repubblicani per le presidenziali di novembre, che già da tempo hanno messo in discussione le capacità mentali del presidente.

Ma una conferenza stampa di circa sei ore, tenuta nella serata di giovedì alla Casa Bianca, ha restituito l’immagine di un presidente profondamente affaticato, irritato e purtroppo prono alle gaffe verbali, problema che però risale a decenni fa, e proprio per questo, per anni, le sue velleità presidenziali erano rimaste frustrate nei confronti di candidati che risultavano oratori più sciolti di lui.

Il fatto che l’incontro con i giornalisti sia avvenuto a tarda sera certo non ha aiutato il presidente che peraltro è nuovamente incappato in una nuova gaffe verbale, riferendosi al presidente egiziano Al Sisi come capo di stato del Messico.

Alcuni consulenti politici di matrice dem come Jim Messina, ex capo della campagna elettorale di Obama nel 2012, hanno ricordato come altri politici, a cominciare da Trump, spesso facciano confusione con i nomi, mentre Stephanie Cutter, anche lei ex collaboratrice della Casa Bianca in epoca obamiana, ha fatto il paragone con l’annuncio delle indagini in corso su Hillary Clinton fatto da James Comey, all’epoca direttore dell’Fbi, a inizio ottobre 2016. Anche all’epoca la questione riguardava dei documenti, seppur digitali come delle e-mail.

I retroscenisti politici si chiedono anche se i maggiorenti democratici abbiano pensato all’eventualità di un ritiro tardivo per Biden, qualora la questione non si sgonfi in fretta. La speranza è che il presidente rispolveri la sua abilità, per lui molto utile in passato, di farsi scivolare addosso gli scandali tanto da guadagnarsi il soprannome di “Teflon Joe”, ma nei sondaggi una maggioranza di elettori americani si dice preoccupata dal fatto che Biden a fine mandato avrà 86 anni, età veneranda che per altri presidenti corrispondeva al periodo della pensione.

Per Trump ci sono due buone notizie: intanto per un po’ nessuno penserà ai suoi bisticci verbali, tipo quando qualche settimana fa ha confuso l’ex speaker dem della Camera Nancy Pelosi con Nikki Haley, sua rivale per la nomination repubblicana.

D’altro canto, può usare questo caso come termine di paragone per uno dei suoi processi: quello riguardante decine di scatoloni contenenti file riservati rinvenuti nei bagni della residenza di Mar-a-Lago. Anche se secondo le prime indagini Trump si sarebbe comportato in maniera fraudolenta, il paragone benaltrista con il caso di Biden potrebbe funzionare con il pubblico non schierato.

Specie se l’attacco viene abbinato all’ipotesi che la memoria di Biden stia venendo meno. Argomento che ora è suffragato anche da un documento ufficiale del dipartimento di Giustizia.

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