Le guerre si combattono anche sul campo dell’opinione pubblica; lo sa Hamas, che ha diffuso i video di alcuni ostaggi; lo sanno i media israeliani, che rifiutano di darvi diffusione. Lo sa il cancelliere tedesco Olaf Scholz quando si trova a dover commentare «la barbarie» delle torture e della decapitazione della giovane tedesco-israeliana Shani Louk. Lo sa il premier israeliano, mentre diffonde un video nel quale dice «bentornata a casa» a una soldatessa liberata.

Per Benjamin Netanyahu gli appelli e il dolore delle famiglie degli ostaggi ancora da liberare rappresentano un problema interno se possibile ancor più degli scontri con la propria intelligence. «La liberazione della soldatessa è la dimostrazione degli effetti benefici dell’operazione di terra», dice il ministro della difesa israeliano. Tra gli effetti dell’attacco a Gaza c’è però pure la lista, sempre più lunga, di morti civili palestinesi: hanno ormai abbondantemente superato gli 8mila secondo i bollettini dell’ufficio Affari umanitari dell’Onu (l’Ocha), e cresce pure la percentuale di donne e bambini in quella lista. Un giorno è il 66 per cento, il giorno dopo il 67, quasi due su tre. Nella sola agenzia Onu per il soccorso dei rifugiati palestinesi (Unrwa) sono già morti 63 funzionari, di cui dieci negli ultimi tre giorni.

La spirale di violenza non si arresta e anzi al contrario aumenta: «La violenza sta aumentando vertiginosamente anche in Cisgiordania», come ha attestato l’alto rappresentante Ue Josep Borrell, ripetendo per l’ennesima volta il suo mantra. «Mentre Israele ha il diritto di difendersi, il diritto internazionale umanitario dev’essere rispettato, come affermato anche dal segretario generale Onu e dal presidente Usa. La vita dei civili deve essere rispettata, senza eccezioni». L’Unione europea, e Borrell che in questo caso la rappresenta, insiste per le «pause umanitarie». Sono le stesse richieste da giorni, e la loro efficacia la si misura da questa chiosa disperata di Borrell: «Questa richiesta deve essere ascoltata».

La «terza fase» di Netanyahu

Questo lunedì Benjamin Netanyahu ha inaugurato l’ennesima «nuova fase» di quello che lui chiama «il tempo della guerra». A suo dire la prima fase era «il contenimento», la seconda «un martellamento dal cielo che continua ancora» e ora «l’estensione della penetrazione via terra nella striscia di Gaza».

La principale città nel nord di Gaza è stata attaccata da ogni lato, inoltre c’è il nodo dello sfollamento: Israele insiste nel dire ai palestinesi di confluire verso sud della striscia. Netanyahu ha anche usato questa come motivazione, ai cronisti che gli chiedevano conto del massacro di civili: «Abbiamo detto loro di spostarsi, non c’è un solo civile che deve morire, Hamas deve lasciarli andare verso la zona sicura a sud». Come conferma anche un documento datato metà ottobre e filtrato ora, il piano israeliano sarebbe sfollare la popolazione verso il Sinai. Ma Abdel Fattah al Sisi, il presidente egiziano, continua a ripetere al presidente statunitense che non se ne parla.

Intanto a dispetto del messaggio di esercito e governo israeliani perché la gente si sposti a sud della striscia, nelle ultime due settimane i bombardamenti non hanno risparmiato il meridione di Gaza, anzi si sono intensificati. Non esistono aree franche di pace. E il cessate il fuoco è fuori discussione per Israele: «Significherebbe la nostra resa», ha detto Netanyahu.

La spirale di violenza

Il premier israeliano ha anche espresso la sua fiducia all’apparato militare e di sicurezza, provando così a seppellire sotto un mare di rassicurazioni, oltre che di scuse, il marasma provocato dal suo tweet di accuse di sabato sera. Intanto le più importanti testate statunitensi continuano a pubblicare inchieste che evidenziano i fallimenti dell’intelligence israeliana, e l’amministrazione statunitense stessa attesta di fatto sia questa sfiducia, che il proprio pieno coinvolgimento nelle operazioni a Gaza, visto che mette i suoi uomini nella sala di comando. Il Pentagono negli scorsi giorni ha negato di prender decisioni per Israele, ma intanto lì ha posizionato il marine pluristellato James Glynn e altri tre esperti di guerriglia urbana.

Il premier israeliano rinvia tutte le faccende interne spinose a «quando la guerra finirà», e a suo stesso dire sarà lunga, quindi chissà a quando. Ma c’è un tema potenzialmente destabilizzatore per la sua leadership che non può schivare: gli ostaggi. Quando l’attacco via terra è iniziato, le famiglie degli ostaggi sono le prime a essersi allertate e ad aver preteso un incontro. Questo lunedì Hamas ha diffuso i video delle tre donne che si rivolgono direttamente a Netanyahu. Il governo rivendica la liberazione di una soldatessa e insiste che l’operazione di terra è la scelta migliore. «La valutazione comune con le gerarchie militari è che l’intervento sul terreno può dare la possibilità, anche se non la certezza, di liberare gli ostaggi, perché crea pressione; contiamo di riportarli a casa tutti», ha detto il premier.

Intanto preoccupa sempre più – anche l’Ue – che la spirale di violenza si sia estesa alla Cisgiordania, e tanto gli Usa che Berlino hanno lanciato moniti pubblici al governo Netanyahu perché rimetta sotto controllo i coloni estremisti. Questa è la situazione delicatissima che lunedì sera il consiglio di sicurezza Onu si è trovato sul tavolo.

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