Tal Mitnik, 18 anni, è il primo israeliano a finire in carcere per essersi rifiutato di arruolarsi nell’esercito che sta combattendo a Gaza e in Cisgiordania. Prima del 7 ottobre erano centinaia a professare l’obiezione di coscienza, tanti poi hanno preferito le armi o il silenzio.

«Non c’è soluzione militare a un problema politico. L’attacco criminale su Gaza non riparerà il massacro che Hamas ha compiuto il 7 ottobre. Per questo rifiuto di arruolarmi». Mitnik ha lo sguardo fiero e un borsone a tracolla sulla spalla mentre si appresta a entrare nella base militare di Tel HaShomer, a pochi chilometri da Tel Aviv, tra gli applausi e le grida di incoraggiamento di altri giovani attivisti come lui.

Martedì è stato condannato a trenta giorni di carcere per aver trasgredito all’obbligo di prestare servizio militare: è il primo obiettore di coscienza israeliano, o refusenik, come vengono chiamati lì, a finire in prigione dall’inizio dell’offensiva su Gaza, o almeno il primo di cui si abbia notizia pubblicamente.

Intervistato da Domani qualche settimana prima dell’arresto, diceva: «Quello che i terroristi di Hamas hanno fatto il 7 ottobre è orribile. Il dolore e la rabbia sono entrati nelle case di tutti gli israeliani, ma non possiamo permettere che si trasformino in vendetta. Far piangere migliaia di madri a Gaza non ci riporterà indietro i nostri cari uccisi. Bombardare indiscriminatamente la Striscia, compresi gli ospedali, non soltanto produce ulteriore odio, ma mette a rischio anche la vita degli ostaggi».

Youth against dictatorship

Mitnik ha finito le scuole superiori quest’estate. Come tutti i suoi coetanei, ad eccezione degli ebrei ultraortodossi che godono di una contestatissima esenzione, avrebbe dovuto prestare servizio militare: in Israele è obbligatorio, e ha una durata minima di 32 mesi per i ragazzi e 24 per le ragazze.

Ma si è opposto e, lo scorso agosto, ha fondato insieme ad altri attivisti il movimento Youth against dictatorship (Giovani contro la dittatura), che in pochi giorni ha raccolto 250 adesioni: ragazzi e ragazze che si impegnavano a rifiutare il servizio militare fino al ritiro della riforma della giustizia promossa da Benjamin Netanyahu e la fine dell’occupazione.

«Noi, giovani chiamati alle armi, diciamo no alla dittatura, sia in Israele che nei territori palestinesi occupati, e dichiariamo che non ci arruoleremo finché la democrazia non sarà garantita a tutti – si legge nel manifesto –. Non serviremo un governo che distrugge il sistema giudiziario e un esercito che sottomette un’altra nazione».

Allora erano migliaia i riservisti e i militari in servizio a minacciare lo sciopero in segno di protesta contro la riforma della giustizia, che avrebbe limitato di molto i poteri della Corte suprema e garantito al governo ampi poteri nella nomina dei giudici.

Dopo il 7 ottobre, però, la maggior parte aveva accantonato la protesta e risposto con convinzione alla chiamata alle armi per «cancellare Hamas dalla faccia della terra». Sono pochi quelli che si sono ostinati nella scelta di obiettare anche dopo, e ancor meno quelli che, come Mitnik, hanno scelto di farlo esponendosi pubblicamente. «È impossibile sapere precisamente quanti siano, anche perché il clima in Israele si è fatto talmente teso dal 7 ottobre che spesso chi rifiuta di prendere le armi lo fa nel silenzio per evitare ritorsioni», spiega Yeheli Cialic, coordinatore di Mesarvot, la principale organizzazione di supporto agli obiettori di coscienza israeliani.

Nessuna alternativa

In Israele non esistono alternative nonviolente al servizio militare. Chiunque però può chiedere un’esenzione per motivi fisici, psicologici o religiosi, e non è raro che le autorità militari assecondino la richiesta. Molto più difficile invece che venga concessa per «motivi di coscienza».

Chi non si presenta in caserma dopo aver visto respinta la richiesta o senza averne presentata una può finire in carcere. «Non c’è una regola, decidono caso per caso le autorità militari», spiega Cialic. «Di solito, si inizia con una condanna di una settimana o dieci giorni per poi aumentare in caso di recidiva, fino ai cinque mesi o più di detenzione». Dopodiché, succede spesso che le autorità si arrendano e concedano l’esenzione per “incompatibilità” con gli standard delle forze armate.

Per essere una prima condanna, quindi, quella di Mitnik (30 giorni di carcere) è particolarmente severa rispetto alla consuetudine, forse un messaggio indirizzato a tutti gli altri refusenik. «È allo stesso tempo preoccupante e incoraggiante», dice Yona Roseman, altra giovane attivista per la pace. «Significa che rappresentiamo un grosso problema per i vertici militari, e che attraverso Tal vogliono dissuaderci dal seguire il suo esempio. Ma non ci riusciranno».

La posizione dell’Onu

Quello degli obiettori di coscienza è uno dei tanti fronti aperti tra Israele e le Nazioni unite: nell’ultimo rapporto periodico dedicato allo stato ebraico, del 2022, il Comitato per i diritti umani esprimeva la sua «preoccupazione per la composizione prevalentemente militare della commissione che decide sulle richieste di obiezione di coscienza» e per il fatto che i refusenik «continuano a essere sottoposti a pene e detenzioni ripetute».

Ma chi dice no alle armi non rischia solo il carcere. «Il servizio militare è considerato una tappa fondamentale nel processo di inserimenti nella società israeliana. Ai bambini viene spiegato quanto sia importante già dalla scuola materna», dice Cialic. «Chi viene meno non è visto di buon occhio, anzi rischia di subire, oltre all’emarginazione, conseguenze sul piano sociale ed economico, per esempio essere svantaggiato sul mercato del lavoro o nella ricerca della casa».

Roseman, che è all’ultimo anno di scuola superiore ma ha già deciso di opporsi al servizio militare, racconta di fare quotidianamente i conti con l’incomprensione di familiari e amici e gli attacchi online. Non ha paura di finire in carcere come Mitnik, e come lui è convinta che, per quanto isolate, le loro scelte stiano iniziando a smuovere qualcosa nella società israeliana. «Ai vertici politici e militari stiamo facendo capire che non possono darci per scontati», diceva il diciottenne qualche settimana prima dell’incarcerazione. «Agli altri ragazzi come noi, invece, stiamo mostrando che quella delle armi non è l’unica strada come ci hanno sempre detto».

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