Dopo nemmeno un mese dal suo insediamento e dopo le promesse in campagna elettorale di ristabilire la deterrenza dell’esercito e rimettere al suo posto la militanza palestinese, il governo considerato il più di destra della storia d’Israele si trova invece a fare i conti con una crisi proprio sul piano della sicurezza.

Dopo il tragico attentato di venerdì sera – 7 morti e diversi feriti dopo che il ventunenne palestinese Alkam Khairi ha aperto il fuoco nei pressi di una sinagoga a Gerusalemme est, il bilancio peggiore dal 2011 – nella giornata di oggi un altro attentato ha lasciato due israeliani, padre e figlio, gravemente feriti. Un palestinese di soli 13 anni è stato colpito e fermato dalla polizia.

Festeggiamenti palestinesi

L’escalation è stata accompagnata da celebrazioni di piazza spontanee nei territori, con la macabra distribuzione di dolcetti nelle strade di Gaza, Cisgiordania, e della stessa Gerusalemme. Un fenomeno certamente non nuovo ma la cui diffusione in queste ore fotografa una crescente frustrazione nella popolazione civile palestinese per la retorica aggressiva e le misure proposte da alcuni esponenti della nuova maggioranza israeliana.

«Il governo continua ad aumentare il livello di pressione sui palestinesi, come si è visto all’alba di giovedì con il raid delle forze speciali israeliane e l’utilizzo ingiustificato della forza presso la cittadina palestinese di Jenin (in cui sono morti nove palestinesi, ndr.)», dice un giovane palestinese di trent’anni, esponente di una delle famiglie più influenti di Ramallah.

«Che cosa si aspettano?», continua, «ci intristisce vedere la violenza abbattersi sulle persone comuni, ma la nostra gente viene uccisa a sangue freddo… non continueremo a morire in silenzio», dice. E ancora: «Per quanto a Gerusalemme si tratti di iniziative individuali e non di gruppi organizzati, non c’è alcun dubbio che l’atmosfera creata dal nuovo esecutivo, pensa per esempio al nuovo ministro Itamar Ben Gvir, contribuisca a provocare atti di questo tipo».

Retorica provocatoria

Il politico Itamar Ben Gvir è stato la rivelazione delle ultime elezioni. Precedentemente relegato ai margini della scena politica per le sue posizioni estremiste – lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu si rifiutava di presentarsi su un palco con lui ancora durante la campagna elettorale – dopo essersi affermato come terza forza politica in tandem con l’alleato Bezalel Smotrich, è stato consacrato dai numeri come colonna portante del nuovo governo. Suo il nuovo ministero della Sicurezza nazionale, con poteri estesi anche alla polizia di frontiera (Magav nell’acronimo israeliano) attiva nella Cisgiordania occupata.

Abbandonata la linea apertamente xenofoba della militanza giovanile nel movimento Kach, nonché degli ultimi anni ai vertici del partito Potere ebraico, Ben Gvir non fa comunque mistero delle sue posizioni oltranziste. Sostiene la pena di morte per i terroristi palestinesi, un’espansione accelerata degli insediamenti, la piena sovranità israeliana sul Monte del tempio o Spianata delle moschee di Gerusalemme, il grilletto facile per i soldati e l’annientamento di qualsiasi espressione di nazionalismo palestinese (tanto per cominciare ha messo fuori legge la bandiera). Un cocktail che risulta a dir poco indigesto alla piazza palestinese.

Arrivato sul luogo dell’attentato venerdì sera non ha rilasciato interviste a causa del sabato ma si è fatto sentire mentre prometteva «più armi per i cittadini comuni». Qualcuno gli ha fatto notare che, al momento, quello della sicurezza interna è il portfolio che gli compete. Netanyahu, visibilmente scosso, ha invece invitato alla calma. «Dobbiamo agire con fermezza e autocontrollo, chiedo agli israeliani di non farsi giustizia da soli», ha detto. «Abbiamo un esercito, una polizia e delle forze di sicurezza che agiranno secondo le indicazioni del gabinetto».

Prospettive cupe

Pochi giorni prima Smotrich, ministro delle Finanze con una delega alla pianificazione degli insediamenti, è andato allo scontro con il titolare del ministero della Difesa Yoav Gallant in seguito allo smantellamento di un avamposto illegale da parte delle forze israeliane.

«Con le attuali politiche di annientamento degli accordi di Oslo, cancellazione dell’Autorità palestinese, annessione di fatto e allargamento degli insediamenti, è difficile le cose si mettano per il meglio all’indomani degli attentati, l’escalation potrebbe continuare», dice Eran Etzion, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale israeliano.

«Tuttavia sarei prudente nel tracciare una linea di continuità fra il nuovo governo e gli ultimi attacchi: a parte la retorica, dopo un mese è presto per parlare di politiche concrete, e non c’è ancora stato un reale cambiamento nel comportamento dell’esercito nei territori», spiega.

Secondo Etzion la situazione attuale va messa in relazione con quanto accadeva anche sotto l’ultimo governo. «È da quasi un anno che si registra un aumento nel numero di attentati palestinesi. Spesso sono iniziative individuali che difficilmente possono essere messe in relazione con i trend politici, individui depressi che cercano quello che chiamiamo “il suicidio per mezzo della polizia israeliana”. Pensi all’attentatore tredicenne si sabato: così giovane poteva avere davvero contezza della situazione?»

Il terrorismo secondo Netanyahu

Da parte sua, Netanyahu rifiuta qualsiasi connessione fra gli attacchi e la repressione delle aspirazioni nazionaliste palestinesi. Studioso del fenomeno fin dalla scomparsa del fratello Yoni durante un’operazione anti terrorismo in Uganda nel 1976 – sul tema ha curato anche diversi libri – è tornato a scriverne nell’autobiografia Bibi, la mia storia redatta durante l’anno trascorso all’opposizione.

«Non lasciatevi ingannare dagli apologeti del terrore. Ci dicono che il modo per porre fine al terrore è quello di placarlo, di cedere alle sue richieste perché, sostengono, la causa principale del terrorismo è la privazione dei diritti nazionali e civili», scrive. «Se così fosse, nelle migliaia di conflitti e lotte per i diritti nazionali e civili dei tempi moderni avremmo assistito a innumerevoli casi di terrorismo. Ma non è stato così», continua, citando Mahatma Gandhi, Martin Luther King, oltre ai paesi dell’est nella loro lotta per l’autonomia dall’Unione sovietica.

E infine delinea le sue posizioni. «La causa principale del terrorismo è il totalitarismo, una tirannia che fa sistematicamente il lavaggio del cervello alle menti dei suoi sudditi affinché sospendano tutti i vincoli morali in nome di una causa distorta. Coloro che combattono come terroristi governano come terroristi, instaurando le più oscure dittature, che siano in Iraq, in Iran, in Afghanistan o Arafatistan», conclude alludendo ai palestinesi.

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