La morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi, quasi sicuramente delfino designato a succedere alla guida suprema Ali Khamenei, avvia una transizione che rivela la complessa natura della Repubblica islamica dell’Iran.

Complessità insita sia nella sua stessa denominazione istituzionale – un vero ossimoro politico – sia nella sua architettura costituzionale, esito nel 1979 di una rivoluzione ancora allo stato nascente, e non ancora del tutto piegata alla sua matrice islamista.

Da qui la coesistenza di organi a legittimazione politica – tutti eletti a suffragio universale, dal sindaco al presidente della Repubblica passando per il parlamento – e organi a legittimazione religiosa, elettivi solo nel caso dell’Assemblea degli esperti che, in assenza di una indiscussa figura carismatica dalle particolari qualità religiose e politiche, “sceglie” il rahbar, la guida suprema, tra i suoi 88 membri.

Tra gli organi religiosi, oltre la potentissima guida, vi è anche il Consiglio dei guardiani, al quale spetta l’esame della compatibilità della produzione legislativa con i principi islamici e la severa selezione, in base a criteri di «lealtà al sistema», dei candidati ai vari organi: dei suoi dodici membri, sei sono giuristi religiosi nominati dalla guida, sei i giuristi non appartenenti al clero indicati dal parlamento su proposta della Suprema corte di giustizia, il cui responsabile è, a sua volta, nominato, dalla guida.

Tensioni interne

La coesistenza di organi dalla diversa legittimità, politica o religiosa, attribuita alla sovranità popolare o a quella divina, è causa delle tensioni che investono dall’interno la Repubblica islamica.

Situazione che si verifica quando gli orientamenti dei diversi organi, in particolare quelli di guida e presidente della Repubblica, non coincidono.

Finita la fase unanimista, segnata dall’indiscusso dominio di Khomeini, dalla guerra con l’Iraq tra il 1980 e il 1988 e dalla morte del leader carismatico, quella “non assonanza” è divenuta ciclicamente palese: come durante la presidenza Khatami, quando i riformisti cercavano di immettere nel “sistema” un tasso di innovazione politica che Khamenei e i suoi seguaci consideravano una sorta di, pericoloso, “gorbaciovismo” in salsa iraniana, capace di mettere a rischio la tenuta del regime.

Se all’inizio del nuovo secolo la Repubblica islamica era ancora un’oligarchia di fazioni, fondate su partiti alternativi che accettavano di muoversi in una cornice istituzionale data, dalla fine dell’èra Khatami, nel 2005, i conservatori religiosi e le forze che li appoggiavano – come la destra radicale di Ahmadinejad – hanno cercato di ridurre la complessità del sistema comprimendo il peso degli organi a legittimazione politica, divenuta la bandiera dei riformisti.

La fine dell’èra Khatami

I conservatori religiosi, infatti, non hanno guardato più ai membri delle altre fazioni, sia quella riformista sia quella tecnocratica, come avversari con cui competere ma come potenziali nemici. Da qui la scelta di cooptare, tra il 2005 e il 2013, la destra radicale, che quella convinzione nutriva già, che con il suo deciso profilo reducista e antagonista, si è assunta il muscolare compito di “ripulire” il sistema dagli “infiltrati” con metodi più o meno ortodossi.

L’Onda verde

Il successivo via libera a Rouhani – il più moderato tra i non conservatori più che tra i riformisti – dopo aver scaricato la destra radicale, è stato un tentativo di sopire le tensioni esplose dopo il golpe nelle urne che, nel 2009, aveva messo fuori gioco, a favore del rieletto Ahmadinejad, il riformista centrista Mousavi. Forzatura che aveva provocato un vasto movimento di protesta, l’Onda verde.

Durante la prudente presidenza Rouhani, però, conservatori religiosi, e Pasdaran, che ormai avevano voce anche in politica estera, si sono ulteriormente rafforzati e, al termine del suo mandato, hanno ricomposto nella figura del fedele Raisi, l’unità di indirizzo tra organi a legittimazione religiosa e organi a legittimazione politica, sancita dal comune orientamento ideologico e religioso di guida e presidente. La sua morte di interrompe questo delicato e complicato processo.

Il futuro

E ora? Parrebbe una fuga in avanti che a succedere a Khamenei sia il figlio Mojtaba: cosa che renderebbe la Repubblica Islamica una sorta di monarchia ereditaria, sviluppo non gradito nemmeno ai Pasdaran, che si vogliono autentici erede del khomeinismo.

Raisi era tra i più indicati a occupare la carica di guida suprema quando Khamenei fosse scomparso o non più in grado di esercitare le sue funzioni. Uomo di sistema e poco carismatico, non avrebbe certo ridimensionato potere e ambizioni delle “stellette”.

Ma la sua morte ha un altro, immediato, riverbero. Il nodo non è trovare un altro candidato alla presidenza, o un nuovo ministro degli Esteri, casella subito riempita con la nomina di Ali Bagheri al posto di Hossein Amir Abdollahian: quanto gestire una consultazione popolare in una fase di debolezza interna.

Debolezza ancora evidente, nonostante la scarsa capacità di tenuta sul terreno della lotta politica dei veri oppositori “al” ( e non “di”) sistema: giovani, donne, ceti urbani istruiti, che, però, agiscono essenzialmente sul terreno dei costumi o della libertà d’opinione.

“Donna, vita libertà” è un movimento costitutivamente acefalo: il vuoto di leadership e organizzazione che ne deriva è un limite evidente. Tanto più in assenza di altre opposizioni credibili: a meno che non si considerino tali vecchi arnesi politici come il figlio del deposto scià, Reza Pahlavi junior, o “guerriglieri” un tempo “duri e puri”, e ora legati all’America cui un tempo si contrapponevano aspramente, come i superstiti del MEK di Mariam Rajavi.

Le elezioni

Il regime sembra aver scelto di andare alle urne, anche se non era obbligato a farlo qualora la guida avesse nominato al posto di Raisi, sino a scadenza del mandato presidenziale nel 2025, il primo vicepresidente. Khamenei ha scelto diversamente, forse non ritenendolo una figura adeguata per gestire un anno di incarico: troppo, in una situazione interna e internazionale assai incerta.

Un percorso, quello elettorale, che però presenta non poche problematiche, politiche più che istituzionali. La procedura è dettata dall’articolo 131 della Costituzione: il primo vicepresidente, assume le funzioni di presidente, e coordina un consiglio composto anche dai capi del potere legislativo e giudiziario, che indice l’elezione del nuovo presidente entro 50 giorni.

A farne parte saranno, dunque, il vicepresidente Mokhber, il presidente del parlamento Muhammad Bagher Ghalibaf, il presidente della Corte suprema e capo del sistema giudiziario Gholam-Hossein Mohseni-Eje’i.

Il problema non è sapere chi avrà il via libera dalla guida per candidarsi a nome del “sistema”: lo stesso ex-pasdaran critico Ghalibaf, gradirebbe. Bensì l’afflusso alle urne, vero segnale, in assenza di reale agibilità dell’opposizione, del livello di consenso del regime.

Le elezioni parlamentari dello scorso marzo, hanno ufficialmente visto scendere la partecipazione al minimo storico: il 41 per cento a livello nazionale, il 7 per cento a Teheran, città da sempre termometro di ogni mutamento. Se calasse ancora?

Cosa accadrebbe, poi, se nel frattempo deflagrasse il conflitto tra Israele e Hezbollah o quello, solo mimato nelle scorse settimane, tra Israele e Iran? Insomma, un passaggio delicato, cui guardano attentamente i Pasdaran, tra i quali alligna un sempre più vasto partito favorevole a un khomeinismo senza clero, che convertirebbe il loro crescente peso politico sotto forma di potere militare. Se gli eventi precipitassero, gli elmetti potrebbero intimare ai turbanti di farsi da parte e prendersi direttamente la scena.

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