Le relazioni fra Santa sede e Israele non sono mai state tanto difficili; il conflitto in corso fra esercito israeliano e Hamas sta mietendo migliaia di vittime civili e ha avuto conseguenze diplomatiche enormi per il governo guidato da Benjamin Netanyahu.

In particolare, la modalità con cui viene colpita la popolazione palestinese dall’offensiva dell’esercito israeliano a caccia di miliziani di Hamas, sta portando il governo di Tel Aviv verso una situazione di isolamento politico. Anche fra i paesi occidentali.

Dalla Casa Bianca alla Gran Bretagna, dall’Italia alla Francia, si fanno sempre più forti le voci che chiedono a Netanyahu di fermarsi. A questi si è aggiunto il Vaticano per bocca del segretario di stato cardinale Pietro Parolin, diplomatico esperto e abituato a misurare le parole, che ha parlato di risposta «sproporzionata» da parte di Israele e di «carneficina» in atto.

Parolin ha ripetuto «la richiesta perché il diritto alla difesa di Israele che è stato invocato per giustificare questa operazione sia proporzionato e certamente con 30mila morti non lo è». «Credo che tutti siamo sdegnati per quanto sta succedendo – ha detto ancora – per questa carneficina, ma dobbiamo avere il coraggio di andare avanti e di non perdere la speranza».

Parole in forte sintonia con quelle pronunciate nella stessa occasione (il tradizionale incontro fra governo italiano e autorità vaticane per l’anniversario dei Patti Lateranensi, svoltosi il 13 febbraio all’ambasciata d’Italia presso la Santa sede), dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, segno di un’intesa non casuale.

Ieri è arrivata la risposta dell’ambasciata israeliana presso la Santa sede che ha definito l’intervento di Parolin «deplorevole», poiché «giudicare la legittimità di una guerra senza tenere conto di tutte le circostanze e i dati rilevanti porta inevitabilmente a conclusioni errate», quindi si faceva presente che Gaza è stata trasformata da Hamas «nella più grande base terroristica mai vista».

Massacri e proporzionalità

Un editoriale dell’Osservatore romano ha tuttavia confermato la liena del segretario di stato. Il cardinale Pietro Parolin, ha ricordato il giornale della Santa sede, «subito dopo il massacro perpetrato dai terroristi di Hamas lo scorso 7 ottobre 2023 ai danni di pacifiche famiglie israeliane aveva definito “disumano” quell’attacco. Aveva indicato come prioritaria la liberazione degli ostaggi, parlando anche del diritto alla difesa di Israele e indicando il necessario parametro della proporzionalità».

Dopo aver riportato le ultime osservazioni di Parolin, il quotidiano aggiunge: «Nessuno può definire quanto sta accadendo nella Striscia un “danno collaterale” della lotta al terrorismo. Il diritto alla difesa, il diritto di Israele di assicurare alla giustizia i responsabili del massacro di ottobre, non può giustificare questa carneficina». Certo, ricostruire un’intesa diplomatica fra Vaticano e Israele non sarà cosa automatica, d’altro canto la crisi in atto sta assumendo dimensioni epocali.

Guerra mondiale e tregua  

Inoltre è possibile che la diplomazia israeliana, in affanno in un contesto internazionale sempre più difficile, non abbia valutato tutte le implicazioni delle affermazioni del segretario di stato.

In primo luogo Parolin ha detto che esiste un diritto di Israele a difendersi, ma che questo può avvenire in modo proporzionato. Di fatto, il cardinale si è lasciato alle spalle un pacifismo di maniera, contrario per principio a ogni uso delle armi, ma incapace di spiegare come ci si possa difendere da un’aggressione (tanto più ambiguo nel caso di Israele).

Se una traccia di quest’ultimo approccio si è intravista in alcuni interventi del papa, è anche vero che la profezia di Bergoglio sul dilagare di «una terza guerra mondiale a pezzi», ha oggi diversi riscontri, dall’Ucraina alla Terra Santa, solo per citare due dei principali conflitti di quest’epoca.

In una simile prospettiva Parolin auspica da tempo la riprese di una forte iniziativa diplomatica e, forse in questi giorni per la prima volta, sulla stessa lunghezza d’onda si trovano il presidente Joe Biden – secondo l’Osservatore romano «sempre più insofferente e spazientito con l’alleato israeliano» – e la stessa Unione europea.

Così, mentre la diplomazia, a cominciare da quella americana, lavora freneticamente in queste ore per far accettare una tregua lunga a Hamas e Israele e favorire la liberazione degli ostaggi che si trovano nella Striscia, le forze militari israeliane stanno per sferrare un attacco definitivo a Rafah, città dove si sono rifugiati centinaia di migliaia di palestinesi in fuga dalla guerra.

È dunque all’interno di questo scenario al contempo complesso e drammatico che va letta la posizione vaticana. La Santa sede non solo è preoccupata per l’aspetto umanitario del conflito, ma anche per la mancanza di una qualsiasi strategia per il “dopo”. Cosa resterà di Gaza? Che ne sarà delle centinaia di migliaia di palestinesi sopravvissuti alla guerra? A queste domande nessuno sembra saper rispondere. Mentre la prospettiva ripetuta più volte in questi 131 giorni di conflitto, anche da papa Francesco, dei due popoli due stati, si allontana sempre di più dall’orizzonte degli eventi.

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