Quando nel 1939 il conclave fece convergere la sua rapidissima scelta su Eugenio Pacelli, il più papabile dei papabili, il cardinale protodiacono – incaricato di pronunciare l’habemus papam e poi il nome di battesimo dell’eletto – appena scandì Eugenium venne interrotto dal boato della folla. Il nome doveva essere seguito dalla consueta formula sanctae Romanae ecclesiae cardinalem e ovviamente dal cognome. Tutti avevano capito, ma in quei pochi attimi Camillo Caccia Dominioni ebbe la presenza di spirito di sussurrare all’orecchio del suo collega Eugène Tisserant: «E se io dicessi Tisserant?».

L’inatteso episodio, insieme ad altri poco conosciuti o ignoti, è raccontato da Wladimir d’Ormesson, il giornalista e scrittore, per anni firma seguitissima del Figaro, che a due riprese fu ambasciatore di Francia presso la Santa sede. Da poco pubblicato, Ma tragique ambassade (Tallandier) rievoca i cinque mesi romani, dalla fine di maggio all’inizio di novembre del 1940, della prima missione, subito molto difficile.

Di antica famiglia aristocratica, il celebre giornalista e scrittore viene mandato in Vaticano proprio mentre la guerra dilaga sul continente e la Francia deve affrontare uno dei periodi peggiori della sua storia.

Sono le settimane in cui il paese sta sprofondando, travolto dall’offensiva hitleriana e occupato dai tedeschi, che lasciano al sud il regime collaborazionista di Vichy retto dal maresciallo Pétain, l’ultraottantenne protagonista della prima guerra mondiale.

Tra Pacelli e Tisserant

Sullo sfondo europeo e francese nel racconto dell’ambasciatore sono tratteggiati con intelligenza e senza reticenze il microcosmo vaticano – attraversato da diverse tendenze e intimorito dal fascismo – e la figura di Pio XII, l’ultimo papa romano.

Di preparazione e statura indiscusse, Pacelli è il papa più controverso del secolo scorso, e il cattolico d’Ormesson ne presenta un vivido ritratto in chiaroscuro: da una parte lo ammira, ma nello stesso tempo non nasconde gli evidenti limiti del pontefice eletto da poco più di un anno.

Il ritratto del papa contrasta con quello del focoso Tisserant, l’altro Eugenio nel conclave. Figura fuori del comune, quella del prelato dalla vistosa barba – dal 1951 per un ventennio decano del «sacro collegio» – è ricostruita in modo eccellente da Étienne Fouilloux per Desclée de Brouwer grazie all’enorme archivio personale su cui molto si è favoleggiato.

Il cardinale, orientalista e bibliotecario, ne aveva infatti disposto la conservazione fuori dal Vaticano (com’è accaduto per le carte non ufficiali di Roncalli, Montini e Casaroli): «Amo la storia, e la storia riceve dalle corrispondenze private una parte della sua migliore documentazione».

Il racconto dell’ambasciatore può essere assimilato a questo genere letterario, basato com’è sul suo diario quotidiano, poi depositato al Quai d’Orsay, sede a Parigi del ministero degli Esteri. A partire da questa documentazione personale – solo in piccola parte utilizzata da Owen Chadwick e, più ideologicamente, da David Kertzer – d’Ormesson scrive due anni dopo la fine della sua missione.

La missione impossibile

In poche settimane la narrazione, fluida e appassionata, a tratti letteraria, viene conclusa nel giorno di Natale del 1942, quarto inverno di guerra.

Nel 1954 d’Ormesson – tornato da sei anni nella stessa rappresentanza diplomatica – scrive preliminarmente che, «se alcuni giudizi formulati sul carattere del sommo pontefice o sulla Santa sede sembrano anche a me talvolta un po’ eccessivi, è perché quando ho scritto queste pagine ero ancora come uno “scorticato vivo”.

Ma non ho voluto apportare correzioni a quelle impressioni fresche e immediate». E il manoscritto del racconto lo conferma. Conservatore, all’inizio senza pregiudizi nei confronti di Mussolini e simpatizzante di Franco, d’Ormesson è invece «ferocemente ostile a Hitler» nota nella prefazione del libro Gérard Araud, che aggiunge come questo cattolico «visceralmente anticomunista» – e solo tardi gollista – rifiuti presto il regime di Vichy.

E la descrizione finale della sua deludente visita di cortesia a Pétain mostra il disinganno aristocratico del diplomatico da poco congedato senza preavviso: «Nell’anticamera del maresciallo, si aspettava il proprio turno come dal dentista, in mezzo a una nuvola di gente che andava, veniva, si sbagliava di porta, alla ricerca di non si sa quali capi ufficio. Un disordine tutto democratico regnava in questi ambienti del capo dello stato, uno dei più autoritari che abbiamo mai avuto». Come in un vaudeville.

Già all’arrivo a Roma la missione del nuovo ambasciatore si rivela impossibile, nonostante il suo predecessore François Charles-Roux si fosse vantato a Parigi con d’Ormesson di essere stato un grande elettore di Pacelli: convincere il papa a trattenere Mussolini dall’entrata in guerra e dall’aggressione maramaldesca a una Francia ormai sconfitta da Hitler, ormai decise da mesi.

Il diplomatico si ricorda allora della raccomandazione letta nelle memorie di un cardinale francese del Seicento e la trascrive con amarezza: «C’è molta gente a Roma che ama assassinare quelli che sono a terra. Non cadete…».

Tra i primi adempimenti d’Ormesson visita subito il segretario di stato, Luigi Maglione, già nunzio del papa in Francia. È un amico, che toglie ogni illusione all’ambasciatore sulla possibilità di evitare la guerra: da Mussolini e dai suoi ministri – «quei signori» li chiama il cardinale – «non ci si può aspettare nulla… nulla… assolutamente nulla».

E abbassando la voce raccomanda all’ambasciatore appena arrivato prudenza, perché gli italiani hanno il cifrario dei diplomatici francesi. «Se palazzo Chigi sapeva tutto quello che succedeva in Vaticano, era vero anche il contrario» chiosa il diplomatico, che descrive il piccolo mondo d’Oltretevere infiltrato di spie fasciste e di simpatizzanti per il regime.

Il ritratto del papa

Proprio alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, il nuovo ambasciatore di Francia viene ricevuto il 9 giugno in udienza dal pontefice – sarà la prima di cinque in cinque mesi, un record – per la presentazione delle lettere credenziali.

Il diplomatico aveva conosciuto Pacelli nel 1937 a Parigi e il cardinale segretario di stato gli aveva parlato del regime hitleriano «con una franchezza, una fermezza, direi quasi con una violenza» che lo avevano impressionato.

Ora il linguaggio del papa era «infinitamente più moderato»: perché si sentiva più tenuto a una maggiore discrezione o forse perché non era più il principale collaboratore di Pio XI, che era fortemente antinazista, come osserva il diplomatico.

La diversità tra Pacelli e papa Ratti, che in vari modi lo aveva designato, è nettissima: «Pio XII è sicuramente un uomo fine, un uomo buono, un uomo puro. Ma manca di temperamento. Si compiace nelle sfumature e cerca le ombre. A questo riguardo la differenza che lo separa dal suo predecessore è immensa».

Lombardo l’uno, romano che «fin dalla nascita aveva respirato l’atmosfera della curia» l’altro, diversi anche fisicamente: Pio XI «massiccio, arrogante, senza fascino, un pochino volgare», Pacelli «magro, alto, fine, affascinante nella sua delicatezza».

E dissimili erano il papa e Tisserant, l’irruente lorenese al quale i figli dell’ambasciatore danno il soprannome di «cardinal de Gaulle» (come lo chiamerà anche Roncalli) perché, vigorosamente contrario alle forze dell’Asse, «anticlericale quanto è possibile a un uomo di chiesa», non nascondeva mai quello che pensava.

Classico «elefante in un negozio di porcellane», non era amato dal pontefice: il prelato non l’aveva votato in conclave – Fouilloux è però più sfumato – e non l’apprezzava.

Ma dopo un duro scontro con il papa il cardinale s’era inginocchiato e, secondo un’antica usanza, gli aveva baciato il piede: «Pio XII allora lo rialzò e l’abbracciò».

Il congedo dell’ambasciatore dal papa si conclude con l’Angelus: «Non restava che una preghiera, pura come una fiamma, che saliva dalle labbra di colui che aveva da Cristo le chiavi della vita futura e che, in ginocchio, come il più miserabile di noi, pregava con umiltà».

Quella di un uomo con difetti, «non accordato con gli avvenimenti di ferro e di fuoco che brutalizzano la cristianità e il mondo»; ma nessuno può rifiutare l’omaggio «dovuto alla sua delicatezza, alla sua purezza del tutto angeliche».

Otto anni dopo d’Ormesson torna come ambasciatore per la seconda volta e, in un contesto del tutto mutato – nel 1954 parla degli «incredibili cambiamenti che si sono avuti in Vaticano» – ritrova Pio XII. Che racconterà in altri due libri.

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