Continuano a rincorrersi voci e dichiarazioni su una possibile mediazione tra il governo Netanyahu e Hamas intorno al rilascio dei rapiti “congelato” dall’organizzazione islamista. «La fiducia è allo stremo, dobbiamo vedere azioni concrete», dice a Domani il professore Ran Goland-Horvitz. Intanto il governo continua a valutare piani operativi con l’esercito in caso di fine della tregua
«Dobbiamo liberarli a qualunque costo, non importa come». Ran Goland-Horvitz, un professore di storia e preside di una scuola nelle vicinanze di Tel Aviv, non ha dubbi. Parla con Domani dalla piazza di Tel Aviv, antistante il museo di arte moderna della città, ribattezzata piazza degli ostaggi e diventata il simbolo dell’appoggio degli israeliani alle famiglie delle persone catturate da Hamas e portate a Gaza il 7 ottobre del 2023.
L’incertezza sulla prosecuzione dell’accordo tra Israele e il gruppo di miliziani continua ad attanagliare il Paese ebraico, che conta comunque anche molte persone che appoggerebbero la decisione di riprendere la guerra a Gaza. «Il livello di fiducia di Hamas non è molto alto. Dobbiamo vedere azioni concrete», dice Goland-Horvitz, che ha accompagnato 300 studenti della scuola alla piazza, dove ogni giorno si radunano decine di persone dal giorno dell’attacco di Hamas. Un uomo sulla sessantina dice che non c’è da fidarsi di Hamas: «Stanno facendo cadere loro l’accordo. Dubito che vedremo altri ostaggi tornare. Sono terroristi e basta».
Quello che è certo è che l’accordo rimane appeso a un filo. Tuttavia, durante la giornata dichiarazioni reciproche, ufficiali o riportate dai media israeliani, hanno lasciato sperare che si fosse vicini ad un accordo per la continuazione della tregua e il contestuale scambio di ostaggi e prigionieri. Hamas sembra disposta a procedere alla liberazione di tre rapiti e ha fatto sapere che l’interruzione del cessate il fuoco può essere evitata malgrado l’incertezza sul numero di ostaggi da liberare sabato prossimo e divergenze sugli aiuti umanitari destinati ai civili di Gaza.
Pur ribadendo di non volere la rottura dell’accordo, il gruppo di miliziani palestinesi rigetta il «linguaggio di minacce e intimidazione» usato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. «Hamas riafferma il suo impegno a portare avanti l’accordo come è stato firmato, incluso lo scambio di prigionieri secondo la tempistica specificata», ha detto il gruppo.
Negoziatori al lavoro
Il lavoro dei negoziatori è continuato durante la giornata, con il capo di Hamas a Gaza Khalil Al-Hayya al Cairo per colloqui con mediatori egiziani a qatarini, che secondo a Hamas era al lavoro per rimuovere gli ultimi ostacoli alla prosecuzione della tregua.
I negoziatori hanno trattato sull’entrata di alloggi mobili, tende, medicinali e carburante e anche macchinari per rimuovere le macerie nella Striscia, secondo quanto fatto sapere da Hamas, che ha contestato ad Israele di non permettere l’entrata di aiuti pattuita nell’accordo. Anche i segnali che arrivavano da Israele ieri sembravano offrire qualche barlume di speranza.
Secondo vari media del Paese ebraico, Gerusalemme avrebbe comunicato ad Hamas attraverso i negoziatori di Egitto e Qatar che l’accordo sarebbe proseguito se Hamas avesse liberato altri tre ostaggi il prossimo sabato.
Uno dei problemi, in questi ultimi giorni, erano stati i messaggi contrastanti lanciati dalle autorità israeliane, incluso Netanyahu, secondo i quali per evitare la fine della tregua Hamas avrebbe dovuto liberare questo sabato tutti gli ostaggi ancora prigionieri a Gaza, oppure i tre programmati oppure nove.
A complicare le cose, però, in pomeriggio un razzo è stato lanciato dall’interno della Striscia, cadendo all’interno dell’enclave stessa, ha detto l’esercito israeliano (Idf), che ha poi localizzato il lanciarazzi, distruggendolo.
Nel frattempo, i riservisti (Idf) richiamati dal governo e spediti verso i confini di Gaza, rimanevano pronti ad agire da sabato se entro mezzogiorno di quel giorno non avverrà lo scambio degli ostaggi e detenuti. Netanyahu ieri sera ha avuto un incontro con il comando sud dell’Idf per valutare vari piani operativi a seconda dei possibili scenari che si possono verificare da qui a sabato.
L’operazione militare nel nord della Cisgiordania, in particolare nelle zone di Jenin, Tulkarem e Tubas, è invece continuata ieri. Stando a informazioni fornite da varie organizzazioni umanitarie gli sfollati da quelle zone sarebbero arrivati a circa 40mila, in seguito a raid aerei e operazioni di terra in quella parte dei Territori occupati, in cui raramente in passato si è vista un’intensità e una forza militare tale.
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