Da quando il 7 ottobre Israele è stato sorpreso dall’attacco dei miliziani provenienti dalla Striscia di Gaza, il messaggio del governo di Benjamin Netanyahu è stato: distruggeremo Hamas e la sradicheremo da Gaza. Una volta fatto però, che accadrà ai civili palestinesi dell’enclave? Chi li governerà? Sinora il governo non ha dato indicazioni sul post-Hamas a Gaza. 

L’attesa

Prevalendo ancora la rabbia per la strage dei kibbutz e la necessità di neutralizzare il lancio di missili provenienti dalla Striscia verso il sud del paese fino a Tel Aviv, il governo ha per ora altre urgenze. A questo si somma anche il dramma dei circa 200 ostaggi catturati e portati a Gaza e le pressioni internazionali per alleviare la crisi umanitaria dei civili palestinesi che peggiora di ora in ora.

I toni usati sinora dal governo per descrivere l’obiettivo della guerra sono stati univoci. «Raggiungeremo ogni tunnel, ogni membro di Hamas e finché non l’abbiamo eliminati, non avremo completato la missione». «Sarà una guerra che cambierà la situazione per sempre» ha dichiarato il ministro della Difesa Yoav Gallant domenica.

Riferendosi agli ostaggi, il ministro ha anche detto che le autorità stanno facendo «il possibile per localizzarli anche in una situazione così complessa».

L’entrata via terra delle forze israeliane sul territorio della Striscia è data per imminente. Gli israeliani hanno chiesto alla popolazione residente al nord di Gaza, circa un milione e centomila persone, di rifugiarsi verso sud e di dirigersi verso il passaggio di Rafah, al confine con l’Egitto, che però è ancora chiuso. Gli sfollati interni sono ormai circa mezzo milione.

L’interruzione della fornitura di elettricità, viveri e aiuti dall’esterno alla popolazione civile sta inducendo una catastrofe umanitaria. Da più parti si invita però il governo israeliano alla cautela e ad aspettare il più possibile di entrare a Gaza.

Al netto di questo, però, la leadership israeliana non ha ancora risposto alla domanda chiave e in qualche modo anche dirimente per la strategia bellica da adottare: chi verrà dopo Hamas?

Fermare il riarmo

«Tutto è possibile per il dopo, ma nessuna opzione è ottimale per Israele» dice a Domani Yossi Kuperwasser, ex direttore generale del ministero degli Affari strategici ed ex capo del dipartimento di ricerca dell’intelligence militare israeliana. Kuperwasser reputa la rioccupazione di Gaza come l’esito più probabile della guerra, sulla cui possibile durata, dice, è molto difficile sbilanciarsi.

«Non abbiamo nessun interesse a governare i palestinesi. Ma la questione più pressante ora è che non si riarmino, così da poter sferrare un altro attacco. E la maniera più efficace è quella di rimanere a presidiare il territorio. Spero che potremo coinvolgere i palestinesi nell’amministrazione di Gaza, ma ad oggi mi sembra molto difficile» aggiunge Kuperwasser.

La rioccupazione del territorio, da cui Israele è uscito definitivamente nel 2005 con il trasferimento di coloni ad altre parti del paese, comporterebbe un ingente dispendio di risorse economiche e militari, considerando le ricadute economiche che una guerra potenzialmente lunga avrebbe su Israele come l’impegno dei militari al nord del paese e i territori, impegnati a gestire le tensioni in quelle zone.

Una strategia d’uscita

Una seconda soluzione per il dopo Gaza potrebbe essere il ritorno al potere a Gaza dell’Autorità Palestinese, che ora amministra la Cisgiordania.

«Una delle cose che ho imparato è che non ti imbarchi in un’operazione militare senza avere una chiara strategia d’uscita» ha detto Yair Lapid, ex primo ministro israeliano e ora leader dell’opposizione, in un’intervista alla CNN sabato. 

«L’exit strategy, secondo me, ma questo sarà oggetto di dibattito, è trovare un modo di riportare l’Autorità palestinese a Gaza» ha continuato Lapid, aggiungendo che la comunità internazionale dovrebbe appoggiarla, almeno nel breve periodo, nel compito di governare la Striscia. 

Ci sono molti dubbi però sulla fattibilità di questa soluzione. L’Autorità palestinese si è indebolita parecchio negli ultimi anni in Cisgiordania, dove è poco rispettata dalla popolazione locale che la considera corrotta e inadeguata. In più, vari tentativi degli ultimi anni per reinstallarla a Gaza, dopo essere stata espulsa da Hamas nel 2007, sono falliti.  

«Ci abbiamo già provato e non ha funzionato» dice Kuperwasser.

Se non fosse l’organismo presieduto dall’ottantasettenne Mahmoud Abbas a farsi carico della Striscia, un’altra soluzione, almeno iniziale, potrebbe essere che lo facesse un’operazione internazionale di peacekeeping. È difficile però pensare a nazioni che vorrebbero impegnarsi a supportare un’operazione di questo tipo, che comporterebbe un impegno gravoso di risorse militari ed economiche.

L’esodo

Un disimpegno israeliano totale dopo l’eliminazione di Hamas, lasciando ai palestinesi la libertà di determinare il governo viene valutata da vari analisti come ancora più improbabile o addirittura completamente irrealizzabile. Inoltre, gli israeliani la considerano pericolosa, perché potrebbe permettere la formazione di altri gruppi di milizie pronte ad assalire di nuovo il paese.

Nella giornata di lunedì le Nazioni unite stavano negoziando con le parti coinvolte per permettere l’entrata dei primi aiuti alla popolazione di Gaza. La prospettiva di una catastrofe umanitaria sta diventando sempre più reale in queste ore. Migliaia di persone hanno raggiunto il passaggio di Rafah al confine con l’Egitto, l'unica via d’uscita praticabile da Gaza, visto l’assedio israeliano, nella speranza di poter lasciare l’enclave. 

Nella giornata era circolata la notizia di un cessate il fuoco a sud di Gaza di qualche ora che potesse permettere la fuoriuscita di civili, ma è poi stata smentita sia dal governo israeliano sia da Hamas. Col drammatico deterioramento della crisi umanitaria un esodo biblico di gran parte della popolazione di Gaza di civili verso l’Egitto rimane un’ipotesi che non si può escludere.

Restare a casa

«Lo spopolamento di Gaza sarebbe manifestamente disumano e una violazione del diritto internazionale. Tale cataclisma sarebbe una seconda nakba, o catastrofe» avverte Rashid Khalidi, professore di studi arabi all’università Columbia di New York, in un editoriale pubblicato domenica sul New York Times, riferendosi all’esodo forzato della popolazione palestinese dal territorio israeliano nel 1948.

Né l’Egitto né Hamas vogliono che la gente di Gaza scappi al di là del confine. Nel contempo molti civili temono di non poter fare più ritorno nella loro terra, malgrado i pericoli che corrono rimanendo.

«Centinaia di migliaia di persone sono rimaste non perché vogliono fare gli scudi umani ma perché non vogliono lasciare la propria terra. Io credo quel sentimento persisterà qualsiasi tipo di soluzione militare Israele vorrà mettere in campo» dice Nicola Perugini, professore di relazioni internazionali dell’Università di Edimburgo. «Il senso del diritto a rimanere sulla propria terra, all’autodeterminazione rimarrà intatto, non vedo segnali in altre direzioni».

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