Scozzese, figlio di emigrati pakistani, laurea a Oxford, sposato con una legale malese, fratello di un ex deputato del partito conservatore britannico, il procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ha il profilo “global” e fuori-dagli-schemi congruo al ruolo che sta giocando.

La sua richiesta di mandati d’arresto per i vertici di Hamas e del governo israeliano è un atto rivoluzionario che ridicolizza le narrazioni nelle quali l’occidente si è baloccato nell’ultimo ventennio. D’un tratto ci troviamo a fare i conti con verità antipatiche: lo scarto tra autarchie e strane “democrazie” non è così ampio come credevamo; anche un governo regolarmente eletto può commettere “crimini contro l’umanità”; “i nostri valori”, la “nostra civiltà” sono formule roboanti ma vuote, quando non pretesti per strategie ripugnanti… E allo stesso tempo le richieste d’arresto per i vertici di Hamas costringono le sinistre populiste e sedicenti alternative, i terzomondisti di ritorno, i libertari a scartamento ridotto a fare i conti con evidenze non meno disagevoli.

A quanto pare la giustizia internazionale non è lo strumento dell’impero americano e del “nuovo colonialismo”, come risulta a Mosca. A quanto pare gli oppressi possono dimostrarsi simili o peggiori degli oppressori, e non v’è ingiustizia subìta che li assolva quando infieriscono su inermi.

Impostazione liberale

Tutto questo rimanda all’idea liberale, e se vogliamo molto “occidentale”, che le persone vadano giudicate per le loro azioni, non per le bandiere che sventolano, le religioni che praticano o le “civiltà” che pretendono di rappresentare. Ci possono essere attenuanti, non esimenti. Alla fine un crimine spregevole resta un crimine spregevole, chiunque lo commetta.

Per cui Karim Khan ha fatto buona pedagogia appaiando le richieste di arresto per il premier Netanyahu e per Sinwar il terrorista. Per moderatismo senile, esigenze diplomatiche o calcoli elettorali Biden ha protestato («oltraggioso»), Londra, Roma e Berlino hanno obiettato («Inopportuno»). Ma altri governi dell’Unione, per esempio Parigi, hanno di fatto difeso la Corte penale internazionale. Prodotto essenzialmente europeo, nacque nel 1998 anche per impulso dell’Italia (governo Prodi, ministro della Giustizia Conso), tanto che oggi il suo codice di riferimento è detto Statuto di Roma.

​​​​​​Eppure non si potrebbe dire che il nostro paese ricordi quell’evento con fierezza. Più esattamente non lo ricorda affatto. E, a giudicare dalle reazioni, l’iniziativa del procuratore Karim Khan pare aver provocato in Italia soprattutto imbarazzo.

Spiazzata quella sommatoria di destre e di sinistre che racconta l’Israele del governo Netanyahu come «l’unica democrazia nell’area». Silenziosa perfino la Bonino, che ebbe un ruolo nella nascita della Corte ma oggi si accompagna a Renzi, devoto all’amico Bibi. Sicché alla fine risuonano soprattutto gli schiamazzi della Brigata Hasbara, la consorteria di giornalisti che per consonanze o per convenienze è sempre allineata alla destra israeliana. Nel futuro prossimo costoro anticiperanno le tattiche cui si affiderà il governo Netanyahu per contrastare la giustizia internazionale.

Si tenterà qualche manovra per indurre la Corte a dichiararsi nell’impossibilità di continuare l’istruttoria: è possibile che abbia successo. Appariranno ritratti al vetriolo di Karim Khan. Sarà omesso l’unico aspetto del suo profilo che in questi frangenti pare significativo: quale che sia oggi la sua fede, il procuratore proviene dall’Ahmadiyya, un movimento islamico che è tra i più perseguitati del pianeta (soprattutto da alcuni regimi islamici, in quanto considerato eretico).

Essere esposti alla persecuzione è terribile ma ha un vantaggio: alimenta una passione per la giustizia e per la libertà mai ingenua, perché mai disgiunta da una ragionevole diffidenza per le masse. Ben radicata da secoli nell’ebraismo, è questa qualità che alla fine salverà Israele dal suo peggior nemico, la maggioranza degli israeliani. Ma sarà necessario un processo di autocoscienza, che peraltro sembra cominciato, altrimenti non leggeremmo (su Haaretz) titoli come il seguente: «Cosa accadrà quando l’Olocausto non potrà più evitare che il mondo guardi Israele per quel che è?». L’articolo comincia così: «Per chiunque voglia vederla, la verità era già abbondantemente chiara nel 1955: “Trattano gli arabi, quelli ancora qui, in un modo che sarebbe da solo sufficiente per indurre l’intero pianeta a manifestare contro Israele”, scriveva Hannah Arendt».

Se studenti italiani dicessero cose analoghe sarebbero immediatamente manganellati dal vasto opinionismo che li pretende antisemiti, ignoranti, filo terroristi, nazisti, imbecilli, quinte colonne di Hamas, occidentali rinnegati, dunque traditori. Pare che questi giovinastri – così apprendiamo – abbaino di continuo lo slogan “Dal fiume al mare la Palestina sarà libera”. Spesso sulle mappe in uso presso le scuole israeliane lo spazio “dal fiume (il Giordano) al mare (il Mediterraneo)” è un continuum in cui il West Bank appare come territorio d’Israele. Il fatto che d’improvviso in quel vuoto appaiano i palestinesi provoca reazione sufficienti a dimostrare che il problema non è solo Netanyahu.

Ecco Yehuda Shlezinger, opinionista di Israel Hayom, quotidiano a larga diffusione. Interpellato da una nota tv a proposito di un filmato che mostrava palestinesi fare il bagno nel mare di Gaza, Shlesinger ha potuto commentare tranquillamente: «Quella gente merita la morte. Una dura morte. Una morte con agonia. E invece li vediamo andare al mare. Dovremmo vedere molta più vendetta laggiù. Molti più fiumi di sangue».

La tenebra è ovunque

Secondo Megan Stack, a lungo corrispondente del New York Times da Gerusalemme, Shlesinger testimonia un sentire comune definito da vari indicatori: «Un linguaggio, usato da politici e da militari, che deumanizza (i palestinesi) e promette annichilimento. Sondaggi che mostrano largo supporto a politiche che infliggono devastazione e fame agli abitanti di Gaza. Selfie di soldati che si pavoneggiano in quartieri sbriciolati dalle bombe. La repressione di ogni minima forma di dissenso tra i palestinesi».

Commenta Gideon Levy, giornalista di Haaretz: «È molto più facile scaricare tutto su Netanyahu, l’uomo della tenebra. Ma (la verità è che) la tenebra è ovunque».

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