Nel clima di grande incertezza creato dal protrarsi della guerra in Ucraina, l’Europa sembra dedicare soltanto uno sguardo distratto a ciò che avviene nelle sponde sud del Mediterraneo.

Ma se le preoccupazioni per una possibile escalation militare, per le ripercussioni economiche del conflitto e per la sicurezza energetica attanagliano il vecchio continente, le tensioni internazionali provocate da un anno di guerra toccano in maniera importante anche il nostro vicinato meridionale.

Già duramente colpita dagli effetti della pandemia, la regione mediorientale-nord africana (Mena) sta subendo oggi le conseguenze del conflitto russo-ucraino su molteplici livelli.

Sul piano economico, per esempio, il conflitto sta producendo vincitori e vinti, con un impatto sugli equilibri regionali. L’aumento dei prezzi di gas e petrolio, scatenato dagli shock post Covid prima e dalla guerra poi, ha acuito le differenze tra paesi esportatori e importatori di idrocarburi.

I primi beneficiano oggi di forti introiti inattesi, e vedono rafforzarsi la loro posizione nel quadro regionale. I secondi invece rischiano una possibile implosione economica.

L’accresciuto costo delle materie prime e delle derrate alimentari in paesi fortemente dipendenti dalle importazione di beni primari ha accelerato in maniera significativa l’inflazione, gonfiato a dismisura il deficit pubblico e minato la sostenibilità dei sussidi su alcuni beni primari.

Le conseguenze sociali e politiche non si sono ancora pienamente manifestate ma potrebbero essere importanti. Basti pensare a cosa sta accadendo in Egitto o in Tunisia, dove debito pubblico, disoccupazione e povertà hanno raggiunto livelli di guardia. 

O in Libano e in Siria, ormai da anni stati falliti, dove la situazione sociale è ormai vicina al punto di rottura. O in Iran, messo alla prova da anni di sanzioni internazionali e, negli ultimi mesi, scosso dalle proteste per i diritti delle donne che si aggiungono al crescente malcontento per la disastrosa situazione economica.

Violenza sociale

CARTOGRAFIA: DANIELE DAPIAGGI FASEDUESTUDIO APPEARS SRL

Mentre le spinte autoritarie si inaspriscono, sono molti gli osservatori che prevedono una nuova ondata di proteste. Proprio come nel 2011. O forse peggio, visto che i popoli della sponda sud, stremati da anni di crisi, non hanno più nemmeno la forza di ribellarsi.

L’implosione economica potrebbe quindi prendere la strada di una rottura profonda del tessuto sociale, con inevitabili deflagrazioni di violenza. Ma che effetti potrà avere per la stabilità regionale l’ondata di esplosioni sociali?

Non si corre il rischio di assistere a una catena crisi pericolose, a un effetto domino che colpisce diversi paesi della regione così come è già avvenuto lo scorso decennio?

Ma è sul piano geopolitico che si forse registrano le novità più importanti. La guerra in Ucraina ha significativamente accelerato le dinamiche multipolari preesistenti nella regione.

Ne è un indicatore significativo la posizione di equidistanza che molti paesi, incluso quelli tradizionalmente vicini all’occidente, hanno adottato nei confronti delle parti in conflitto. Il voto all’Assemblea generale dell’Onu è rivelatore.

È evidente che questi paesi non ritengono che sia nel loro interesse prendere una posizione troppo netta di condanna alla Russia. Né sembrano condividere gli argomenti occidentali sulla necessità di una scelta di campo, indispensabile per difendere l’ordine internazionale e i principi universalistici del diritto internazionale.

Sembra piuttosto prevalere una sorta di risentimento verso l’occidente e i suoi doppi standard, una percezione diffusa che questa sia una guerra tra paesi del nord che poco ha a che vedere con il “global south”. Questo, assieme alle campagne di disinformazione efficacemente portate avanti dalla Russia, spiega in parte l’atteggiamento dei paesi della regione.

Ma c’è di più. Il medio oriente e nord africa è oggi uno delle aree del pianeta dove più forte si sente la spinta del multipolarismo. Ciò avviene perché questa è anche una delle regioni dove maggiore è stata negli ultimi anni la competizione fra gli attori internazionali.  

Una competizione a più livelli – economico, geopolitico, strategico – che si è incardinata, utilizzandole ed essendone a sua volta utilizzata, nelle dinamiche prodotte dalle rivalità tra le potenze regionali che abbiamo visto in gioco negli anni successivi alle rivolte arabe.

Approfittando delle opportunità create dalla percezione di un graduale disimpegno degli Stati Uniti – sempre più presi dal riorientamento strategico verso l’area Indo-Pacifica e più recentemente dall’acuirsi del confronto con la Cina – Russia e Cina hanno accresciuto il proprio peso geopolitico e geoeconomico nella regione.

A partire dal 2015, per esempio, la Russia ha utilizzato il successo del suo intervento militare nel conflitto siriano per proporsi come partner al contempo potente e affidabile per i paesi arabi.

Hard power e un’immagine di determinazione hanno aiutato la Russia a consolidare le relazioni con i paesi Mena, potenziando l’export di armamenti e la cooperazione in campo energetico e nucleare.

Significativo tra tutti è l’accordo che la Russia ha concluso nel 2016 con Arabia saudita, Uae e gli altri paesi del Golfo nel quadro dell’Opec+ per mantenere i livelli di produzione del greggio.

Un accordo che tiene a tutt’oggi, malgrado il mutamento di contesto internazionale prodotto dalla guerra in Ucraina e le pressioni statunitensi sui paesi del Golfo, e chiara indicazione di uno smarcamento di questi ultimi dall’influenza Usa. Resta da vedere quali saranno le conseguenze delle difficoltà militare russe in Ucraina. Il prolungarsi dell’impasse nel teatro ucraino costringerà la Russia a diminuire la sua presenza nel teatro siriano? O la spingerà piuttosto a cercare di aprire nuovi fronti nello scacchiere mediorientale, in un non meno pericoloso tentativo di escalation orizzontale?

E che impatto avrà nelle relazioni con i paesi Mena la perdita d’immagine prodotta dalla poco brillante performance nei campi di battaglia ucraini?

La posizione della Cina

La Cina ha un interesse strategico nella regione da cui proviene gran parte del suo fabbisogno energetico. Negli ultimi anni il gigante asiatico ha rafforzato la sua posizione di partner commerciale importante per tutti i paesi dell’aerea, arrivando ad essere il primo paese esportatore in ben dieci di essi.

La regione è inoltre chiave come destinazione per gli investimenti diretti della Cina, soprattutto nell’ambito del grande progetto infrastrutturale e connettivo della Via della seta.

Attorno a quest’ultimo convergono i modelli di sviluppo e diversificazione delle monarchie del Golfo, che, puntando sulla geografia, vorrebbero trasformare la penisola arabica in grande piattaforma logistica globale.

Questo spiega perché la relazione tra Cina e i paesi del Golfo sia sempre più strategica per entrambi i partner, come dimostrato dalla recente visita del presidente Xi Jinping a Riad.

Ma la penetrazione della Cina va al di là del suo ruolo geoeconomico. È recente la notizia che la Cina è riuscita nella mediazione tra Arabia Saudita e Iran – suo altro partner strategico – e che i due paesi riprenderanno a breve le relazioni diplomatiche dopo anni di intensa rivalità.

È questo il primo passo di un coinvolgimento politico nei complicati dossier mediorientali? Vorrà la Cina proporsi come alternativa agli Usa come mediatore e potenza egemonica in medio oriente? E se ciò avviene, dobbiamo anche attenderci una crescita della dimensione militare?

Il terzo aspetto dei mutamenti geopolitici in corso sono le nuove dinamiche tra gli attori regionali. Una dimensione chiave del nuovo multipolarismo Mena è che esso consente una molteplicità di partenariati e alleanze di comodo in un quadro regionale fluido e in continuo cambiamento.

Si stringono accordi non esclusivi su basi puramente transazionali e non ideologiche, cercando di massimizzare gli obiettivi e gli interessi del momento. Tutto ciò è spinto dal tentativo di mantenere un balance of power all’interno della regione.

A riprova di questa nuova tendenza abbiamo il tentativo da parte di molte potenze regionali di promuove un reset nei rapporti politici e commerciali Mena.

Negli ultimi due anni abbiamo assistito a un moltiplicarsi delle iniziative di dialogo e di normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Ad esempio, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno sollevato l’embargo imposto sul Qatar e normalizzate le relazioni all’interno del Gcc; la Turchia si è riavvicinata agli Emirati, all’Egitto e all’Arabia Saudita, dopo che con questi paesi si era confrontata duramente in campi opposti di una competizione geopolitica regionale sia nel Mena sia nella regione del mar Rosso; infine gli Accordi di Abramo stanno creando nuove dinamiche economiche e politiche tra Israele ed Eau, Bahrein, Qatar, Sudan e Marocco.

Politica “zero problemi”

Dietro questo attivismo diplomatico ci sono molteplici ragioni. La stanchezza, per esempio. Dopo anni di rivalità e confronto per procura nei vari teatri di crisi e di conflitto della regione non ci sono vincitori. Nessuna potenza regionale è riuscita ad affermarsi in un ruolo egemone.

Ci si sta forse rendendo conto che il gioco non vale la candela e che diplomazia e soft power hanno probabilmente maggior possibilità di assicurare dei benefici durevoli.

È il caso ad esempio della nuova politica “zero problemi” degli Eau, che mette in pausa, almeno per il momento, anni di proiezioni militare del paese nel Mena e nel Corno d’Africa.

O sono le ragioni dell’economia a far sentire la loro voce, come nel caso delle aperture della Turchia agli ex rivali. Non è un caso che la Turchia riesca oggi a fronteggiare la crisi economica peggiore degli ultimi vent’anni solo grazie agli investimenti e ai finanziamenti dei paesi del Golfo.

Il processo di reset provocato dal nuovo contesto multipolare sembra dunque capace di produrre de-escalation e dialogo. Le potenze regionali potrebbero utilizzare questa finestra di opportunità per avanzare nel difficile cammino della costruzione di un architettura di sicurezza e aprire la via all’integrazione in campo economico.

Si tratta di trovare modalità e creare istituzioni per gestire conflitti, tensioni e crisi in maniera autonoma e indipendente. Si tratta inoltre di cogliere le opportunità di crescita e sviluppo fornite alla regione dalle transizioni verde e digitale, utilizzando i vantaggi comparativi, ad esempio nella produzione di energia rinnovabile e posizionandosi nelle nuove catene di valore globali. 

L’ostacolo principale resta la mancanza di fiducia tra le élite, mancanza che alimenta i dilemmi di sicurezza, dove le iniziative difensive dell’avversario geopolitico vengono interpretate come mosse offensive, provocando una nuova reazione, anch’essa difensiva nelle intenzioni, ma aggressiva nella percezione dell’altro.

La costruzione della fiducia è dunque una condicio sine qua non per uscire da anni di crisi. Misure di confidence-building, tanto nel settore militare quanto in quello economico, l’apertura di canali di comunicazione e la costruzione di meccanismi che aumentano la trasparenza, sono gli strumenti che sono stati testati con successo nell'esperienza europea dell’Osce.

Sulla base di questa esperienza, alcuni principi potrebbero rivelarsi utili per iniziare a plasmare l’architettura di sicurezza regionale. È un processo lungo, ma la maggiore stabilità nella regione sarebbe di gran beneficio per tutti.

Purtroppo la fluidità introdotta dal multipolarismo non spinge soltanto nella direzione di una graduale pacificazione regionale. Il reset può essere facilmente arrestato o dirottato da incidenti o da sviluppi politici negativi.

E non sono poche le incognite che circondano l’evoluzione politica di alcuni paesi chiave. L’Iran, per esempio. Se è vero che l’Iran – così come i suoi rivali del Golfo – ritiene che una guerra tra gli stati dell’area avrebbe un costo altissimo ed è da evitare assolutamente, è altrettanto vero che la Repubblica Islamica, sotto la guida dei duri del regime, sembra decisa a proseguire in un cammino di rischi calcolati che potrebbe alla fine rivelarsi molto pericoloso.

Lo dimostrano l’avvicinamento alla Russia, che si è tradotto anche in un appoggio militare nel fronte Ucraino attraverso la fornitura di droni e altri sistemi d’arma; o l’accelerazione imposta all’arricchimento di uranio, mentre i negoziato JCPoA sembrano ormai in una fase di stallo irrecuperabile.

Dall’altra parte Israele. Le politiche del nuovo governo di estrema destra stanno scatenando forti tensioni nella società, anche a seguito del tentativo di imporre riforme altamente controverse. A questo si affianca un riacutizzarsi delle violenze nei territori occupati. 

In questo contesto, forse anche per distrarre le attenzioni dei problemi interni, Israele non nasconde la sua volontà di risolvere militarmente la questione del nucleare iraniano.

Cosa accadrà al reset regionale sotto la pressione di provocazioni o di un innalzamento della tensione? Riusciranno gli attori regionali ad evitare di essere trascinati da nuove spirali di escalation?

La questione europea

Infine, l’Europa. Come abbiamo visto la politica europea verso il vicinato sud sembra essere caratterizzata da un ridotto interesse strategico. Questo non è certo una novità.

È il risultato di una tendenza a percepire la regione come lontana e scollegata dall’Europa, poco rivelante per le questioni chiave del vecchio continente, incluso il ritorno della guerra territoriale nello spazio europeo.

Ma è anche il prodotto di una tendenza ossessiva e selettiva nelle relazioni con questi paesi, relazioni dove appaiono prioritari pochi temi _ migrazioni, lotta al terrorismo, e più recentemente sicurezza energetica – e solo perché sono centrali nel dibattito politico interno di molti paesi della sponda nord.

Il risultato di questa cronica distrazione è l’incapacità di cogliere i cambiamenti di portata strategica che marcano la regione dall’inizio delle primavere arabe a oggi.

E ancor più, la difficoltà  nel giocare un ruolo importante nella stabilizzazione regionale e la risoluzioni dei vari conflitti – Siria e Libia in particolare – che ormai durano da 12 anni.

Ma se, come si è visto, gli effetti della guerra in Ucraina si fanno sentire duramente anche nei paesi Mena, accelerando dinamiche multipolari che se negative avranno un impatto importante anche nel vecchio continente, allora è chiaro non è più possibile impostare una visione geopolitica europea a compartimenti stagni.

D’altra parte bisogna tenere conto del fatto che i giovani, che nella regione rappresentano la stragrande maggioranza delle popolazioni, non vedono più prospettive per il futuro.

Un eventuale collasso economico di diversi paesi avrebbe inevitabili ripercussioni sociali, col rischio di provocare eruzioni di violenza che, anche se localizzate, potrebbero incendiare l’intera regione. 

Per tutte queste ragioni è chiaro che la stabilità del medio oriente e nord Africa è fondamentale per l’Europa. Una risposta realmente strategica dell’Europa all’aggressione russa in ucraina passa inevitabilmente anche per un suo maggior coinvolgimento politico ed economico nel Mediterraneo. È tempo di ripensare in profondità le relazioni con i paesi del Mediterraneo allargato.  

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