Chi ha visitato la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, lo scorso febbraio, ha descritto il vertice che mette insieme i principali leader politici e militari con i rappresentanti dell’industria della difesa avvolto in un clima cupo e pessimistico. Nei corridoi e nei salotti si parlava di un prossimo e inevitabile scontro tra Russia e Nato e dell’impreparazione degli Europei se, con l’eventuale vittoria di Donald Trump, gli Stati Uniti dovessero sottrarsi alla battaglia.

Da allora, leader e istituzioni europee hanno continuato a battere sui tamburi di guerra. «La Russia non si fermerà in Ucraina», ha scritto il presidente del Consiglio Ue Charles Michel in un articolo pubblicato pochi giorni fa sui principali quotidiani europei: «Dobbiamo passare a un’economia di guerra». Il presidente francese Emmanuel Macron parla di intervento militare in Ucraina, quello polacco Donald Tusk annuncia che ora «ogni scenario è possibile», mentre i leader dei paesi baltici chiedono al resto dell’Europa di considerare la reintroduzione della coscrizione obbligatoria. Ma a tutto questo tintinnare di sciabole non trova riscontro nelle azioni dei governi e delle istituzioni europee. La spesa militare in Europa ha raggiunto nuovi record e crescerà ancora, ma resta frammentata e caotica. Gli stati continuano a privilegiare i loro “campioni nazionali”, la collaborazione rimane in gran parte sulla carta e un autentico esercito europeo un miraggio. Quasi che i leader europei non credessero veramente alle minacce di cui parlano.

La spesa

L’ultimo atto di questa saga è stata la sconfitta, per la verità già largamente annunciata, della proposta presentata all’ultimo vertice europeo di emettere titoli di debito europeo, i famosi eurobond, per finanziare programmi di difesa comune. Proposta avanzata dalla Francia e dai paesi del sud Europa e bocciata dalla consueta coalizione di “frugali” del nord Europa. Il documento approvato dal Consiglio parla di «idee innovative», ma rimanda il problema a giugno, quando la Commissione europea presenterà un nuovo rapporto sulle questioni della difesa. Nel frattempo, il nuovo piano di difesa comune elaborato dalla Commissione europea a marzo, che secondo il commissario Thierry Breton avrebbe dovuto avere un budget comunitario di 100 miliardi, si è ridotto a un documento ritenuto dagli esperti in gran parte irrealizzabile, con alle spalle fondi per meno del 2 per cento della cifra stimata all’inizio.

Ma questi problemi non significano che l’Europa non abbia aumentato significativamente le sue spese militari. Il 2023 è stato il nono anno consecutivo in cui il totale del budget per la difesa è aumentato, raggiungendo la cifra record di 270 miliardi di euro, una crescita anno su anno di quasi superiore al 10 per cento. Gli indicatori mostrano che questi aumenti di spesa sono anche qualitativi, non solo quantitativi. Più del 20 per cento della totale è andato in investimenti, in particolare nell’acquisto di nuovi armamenti, invece che a stipendi e pensioni, rimasti sostanzialmente stabili. Secondo l’Agenzia per la difesa europea, il 2022 è stato il quarto anno consecutivo in cui è stato superato l’obiettivo per questo capitolo di spesa. Circa metà degli stati membri dell’Ue non raggiungono la soglia di spesa in difesa raccomandata dalla Nato, fissata nel 2 per cento del Pil, ma il gap si è ridotto alla cifra più bassa di sempre. Oggi, l’Europa spende l’1,8 per cento del proprio Pil in difesa. Contando i paesi europei della Nato non membri dell’Ue, come Regno Unito e Norvegia, la cifra complessiva del 2 per cento è stata superata per la prima volta proprio nel 2023. Sono cifre che mettono in ombra la spesa militare russa, che pure è impegnata da due anni in un conflitto difficile e costoso. Secondo i dati ufficiali del Cremlino, la spesa militare del paese è stata di 84 miliardi di euro nel 2023 e arriverà a 115 nel 2024. Anche tenendo conto di possibili sottovalutazioni, si tratta di metà di quanto speso dai soli membri dell’Ue e un terzo della spesa complessiva di tutti i paesi europei.

Una doccia di realtà sulle reali capacità russe è arrivata poche settimane fa dal capo di stato maggiore delle forze armate britanniche. La Russia è pericolosa, ha detto l’ammiraglio Tony Radakin «ma allo stesso tempo le sue capacità sono molto inferiori rispetto a quanto pensavamo prima della sua disastrosa e illegale invasione dell’Ucraina».

Quale difesa?

Certo, spendere più della Russia non significa automaticamente avere capacità militari superiori. L’Europa investe sempre di più in armi, ma in modo frammentato . «La militarizzazione europea è senza dubbio in atto. Ma a cosa serve questa spesa?», si domanda Fabrizio Coticchia, professore di scienze politiche all’Università di Genova ed esperto di sicurezza. «Se davvero ci prepariamo a un confronto convenzionale con la Russia – e la cosa è tutta da dimostrare – allora dovremmo seguire strade diverse».

La grande massa di spesa per la difesa europea, infatti, è frammentata in 27 eserciti diversi, ognuno con le sue capacità ridondanti e le sue priorità. Secondo un’analisi della società McKinsey, che ha preso in esame alcune tipologie di armi chiave, come carri armati, missili anti aerei e navi da combattimento, l’Unione europea schiera 179 sistemi di arma diversi, contro i 33 degli Stati Uniti.

L’Europa, inoltre, continua a dipendere da forniture extra Ue e la situazione non dà segno di cambiare. Secondo la Commissione europea, dall’inizio della guerra in Ucraina allo scorso giugno, il 78 per cento delle armi comprate dai paesi europei sono state acquistate fuori dall’Unione e solo il 18 per cento in modo collaborativo, appena poco più della metà dell’obiettivo fissato al 35 per cento.

Coticchia ricorda che inoltre ogni stato membro mantiene le sue priorità nazionali sulla difesa. L’Italia, ad esempio, ha forze armate e un’industria militare concentrare sull’obiettivo del cosiddetto “crisis management”. L’obiettivo strategico del paese è il Mediterraneo, dove ciò che serve sono forze militari leggere e professionali, in grado di fornire supporto ai partner locali nella lotta al terrorismo. Una configurazione di forze radicalmente diversa a quella che servirebbe per fronteggiare una guerra convenzionale con la Russia. Anche per questo, i governi europei e i loro complessi militari-industriali vanno ognuno per conto suo. Francesi, spagnoli e tedeschi stanno sviluppando un loro jet da combattimento di nuova generazione, mentre italiani, britannici e giapponesi hanno lanciato un progetto concorrente. Metà Europa ha deciso di partecipare al progetto americano F35, ma la Francia è andata per la sua strada. Sul nuovo sistema di difesa antiaereo – un tipo di arma di cui l’invasione ucraina ha ricordato l’importanza – Italia e Francia puntano a creare un dispositivo europeo (nessuno stato membro produce sistemi a lungo raggio, come gli americani Patriot), ma la Germania vuole un progetto di cui facciano parte anche Usa e Israele. Anche se le istituzioni europee hanno fatto passi enormi sulla difesa comune – era impensabile fino a un decennio fa avere un vertice europeo con l’acquisto di munizioni di artiglieria nell’agenda – l’approccio resta carente rispetto all’entità delle minacce descritte dai leader politici dell’Unione. «L’ambito della difesa comune è problematico, è un aspetto che sta al cuore della sovranità nazionale e sul quale gli stati non sono disposti a cedere facilmente», dice Coticchia. Mentre si parla di una nuova guerra inevitabile, quello che gli elettori europei hanno davanti non è una ristrutturazione complessiva della difesa europea, volta a garantire l’autonomia del continente rispetto al suo imprevedibile alleato di oltreoceano, ma una sorta di keynesismo militare provinciale, in cui i singoli stati continuano a dare la precedenza ai loro campioni nazionali e ai loro interessi economici. Quasi non credessero fino in fondo alle minacce di cui parlano i loro stessi leader.

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