Insensibilmente sta cambiando la geografia mondiale. La nostra doveva essere l’età dell’accesso ma aree sempre più ampie del mondo diventano inaccessibili e pericolose.

I siti dei ministeri degli Esteri occidentali (ad esempio viaggiaresicuri.it) sono pieni di allarmi e divieti che escludono ai viaggiatori un numero di paesi sempre più grande. Anni fa saggi, articoli e innumerevoli convegni sono stati fatti sulle caratteristiche di apertura della globalizzazione.

L’idea era che tutti hanno accesso a tutto e a tutti, almeno così avrebbe dovuto essere. Il simbolo era lo smartphone: chi lo possiede può collegarsi quasi senza costi con tutto il mondo, ricevendo informazioni ma soprattutto connettendosi per scambiare con chiunque. Una vera rivoluzione per avvicinare gli esseri umani, restringere le distanze e creare un immaginario globale fatto di valori ma soprattutto di consumi, gusti, scelte di vita, tendenze e mode comuni.

Il mondo del facile accesso

Si trattava di un ibrido con l’ambizione di andare bene a tutti o quasi. Fin dall’inizio la parte del leone l’ha fatta l’occidente con i suoi modelli e le sue proposte ma pian piano si sono fatti strada anche altri, mescolandosi e contaminando lo spazio virtuale comune.

In effetti (malgrado le restrizioni dovute alla pandemia) viviamo in un mondo dal facile accesso, principalmente in termini economico-commerciali ma anche con una continua produzione di comunità (virtuali o reali) “senza frontiere”, sia nella cultura che nelle scelte esistenziali e nelle credenze, mediante una permanente e infinita successione di imitazioni e riproduzioni.

Tale processo è in atto, è potente e sta proseguendo la sua tumultuosa corsa. Eppure, malgrado la sua vitalità, incontra opposizioni sempre più forti. Innanzitutto le trova nell’occidente stesso, laddove tutto il processo è iniziato.

Tradizionalisti e nostalgici di una old America o vecchia Europa sono spaventati dalle conseguenze di queste evoluzioni, dalle libertà che innescano e dalle vicinanze che producono. Molti preferiscono un mondo separato in cui i valori siano gerarchizzati, le esistenze dissociate, lo spazio segregato.

Ritorno al passato

Pare a loro più rassicurante il mondo di ieri ma non tengono conto di quanto altri popoli abbiano sognato il libero accesso (a iniziare dall’indipendenza contro il colonialismo) e di quanta acredine la sua negazione abbia provocato e stia ancora provocando solo se pensiamo alle migrazioni.

Tuttavia, anche nei paesi emergenti si fa strada l’appello a tornare al passato, a negare la storia e a rintanarsi nelle tradizioni più chiuse. Nativismo, localismo, isolazionismo esistono a ogni latitudine.

Troppa libertà e mescolanza  spaventano molti ed è qui che si innesta l’eversione jihadista. Cosa vogliono realmente i jihadisti, a qualunque sigla appartengano? Hanno in programma il “negare l’accesso” agli altri, alle altrui culture, ai diversi stili di vita e così via. Sono i veri rappresentanti dell’odierna dottrina della segregazione.

Guardando ciò che accade si ha l’impressione che la strategia militare del jihadismo internazionale, pur con le sue diversità e divergenze teologiche, punti precisamente ad impedire l’accesso a spazi sempre più grandi, iniziando con l’allontanare gli occidentali.

La tattica del terrorismo è dunque rendere impossibile e insicura l’entrata o il passaggio in aree territoriali sempre più ampie. Non c’è solo il pericolo della pandemia: davanti a una mappa geografica ci si rende conto del progressivo restringersi della possibilità di attraversare interi territori ormai considerai a rischio.

Dal Sahel jihadista all’Africa centrale e dei grandi laghi pieni di milizie, al Corno d’Africa in fiamme fino al Mozambico settentrionale attaccato dai jihadisti, all’Asia centrale sempre più insicura (si pensi all’Afghanistan ma anche ai paesi suoi frontalieri) e ora anche a Siria, Yemen, Libano, Tunisia, Libia e gran parte del medio oriente fino al Caucaso.

In estremo oriente si possono indicare come pericolose zone delle Filippine meridionali, una parte delle isole indonesiane e così via. Ci sono paesi, come le Maldive, in cui i turisti stranieri vengono tenuti strettamente separati dalla popolazione, senza poter andare se non nelle aree assegnate loro.

Ribellioni vecchio stampo

Non è solo il jihadismo a negare l’accesso: vi sono anche ribellioni vecchio stampo sia in Africa che in America Latina, legate a una rabbia contro il nord ricco del mondo che non ha saputo fare giustizia né produrre uguaglianza.

Il rischio è che siano riutilizzate e manipolate dai jihadisti che utilizzano i loro slogan. Fa impressione, ad esempio, come nelle propagande di tutte le rivolte che in un modo o nell’altro si oppongono all’interconnessione della globalizzazione e alla libertà di accesso, spunti sempre il medesimo antico slogan anti imperialista.

In generale si considera il radicalismo islamico come una dottrina passatista e retrograda ma è proprio questa la sua forza: rappresentare la sicurezza del mondo di ieri con le sue regole e delimitazioni, rifiutando quello di oggi così confuso, aperto e complesso.

Il jihadismo è il simbolo di chi non si adatta alla postmodernità della globalizzazione: è questo il suo messaggio e la sua forza. In un mondo di spaesati che non riconoscono più il tempo in cui vivono, si apprezzano tali valori tradizionali dalle solide certezze. Ciò può attecchire tra i nostalgici di tutto il mondo.

Più avanza la globalizzazione dei costumi e delle idee, più sale una sorda collera tra chi crede di essere stato tradito, lasciato indietro o abbandonato. Costoro possono opporsi in vari modi al processo globalizzante in atto: con la violenza, la rabbia o la rivolta.

Ma uno dei modi più efficaci pare diventare la silenziosa ostilità che separa, impedisce ogni contatto e scambio e alla fine vieta il libero accesso. Tale sorda contrarietà crea inimicizia, inibisce il dialogo e allontana le genti. Davanti a tali fenomeni si può reagire con rassegnazione, iniziando a credere che il disordinato ma fecondo convivere non valga per tutti.

Sarebbe un errore capitale far crescere tali pregiudizi complici dell’inerzia e della mancanza di visione politica. Ecco perché ogni dialogo è utile e vitale in sé stesso: impedisce il radicarsi di tali convinzioni e apre ognuno allo stupore dell’incontro. 

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