Non c’è più il jihadismo di una volta. La globalizzazione non è solo un fenomeno economico ma anche culturale e antropologico. Ne sanno qualcosa i jihadisti attuali che vedono trasformare la prassi della loro ideologia pseudo-religiosa sotto i loro occhi.

Detto in breve il jihadismo è la forma più violenta del salafismo, quell’interpretazione teologica dell’islam che fa riferimento alla scuola giuridica islamica più severa che vede nell’epoca dei primi quattro califfi (detti i ben guidati) l’unico riferimento accettabile.

Tutto ciò che è avvenuto dopo, inclusi i califfati omayyadi e abbasidi o l’impero ottomano, viene considerato come una deviazione dall’islam puro degli inizi. Si contesta cioè ogni acculturazione dell’islam in popoli e culture diverse.

I jihadisti sono degli anti-storici che vorrebbero rimanere alla mera imitazione dei primi compagni del profeta. Senza inoltrarsi nella vacuità arcaica di tali proponimenti (l’epoca d’oro non fu così perfetta: tre dei quattro califfi furono assassinati), è interessante notare che diventa sempre più impossibile per i jihadisti contemporanei mantenere tale rotta.

Da una parte l’inserimento in regioni nuove produce adattamenti e un’inculturazione indispensabile. Dall’altra i fenomeni di cambiamento antropologico e sociale indotti dalla globalizzazione mutano anche le pratiche jihadiste dall’interno degli stessi terroristi. Iniziamo dai boko haram: ormai tale fenomeno jihadista nigeriano non esiste più.

I contrasti, le scissioni e le discordie all’interno del movimento hanno provocato negli ultimi anni la sua trasformazione in qualcosa di nuovo (non necessariamente migliore) assieme alla scomparsa di intere parti del gruppo terroristico.

La prova si è avuta recentemente con il suicidio di Abubakar Shekau uno dei suoi leader più violenti. Quest’ultimo ha preso il posto del fondatore Mohamed Yusuf dopo la sua uccisione nel 2009, ma non tutti i capi-milizia ne hanno riconosciuto l’autorità. Subito inizia una progressiva frammentazione che oggi ha del tutto destrutturato il raggruppamento.

A dividere non c’è solo la competizione per il potere: lo spostamento dei vari gruppi armati dai sobborghi di Maiduguri (la città dove sono nati), alla foresta di Sambisa più a sud, ai monti Mandara ad ovest lungo la frontiera con il Camerun, fino al lago Ciad (tra Nigeria, Niger, Ciad e Camerun), modifica completamente la natura dei combattenti e anche le loro ragioni.

Per sopravvivere, i vari tronconi devono trattare con le popolazioni locali: con tali alleanze devono accettare di assumere su di sé le agende di queste popolazioni, in origine totalmente estranee all’islam radicale. Così lungo le rive del lago Ciad una buona parte dei Boko haram si trova oggi a dover difendere le rivendicazioni delle etnie dei pescatori, in lotta contro quelle degli agricoltori e soprattutto dei pastori transumanti. Se l’interesse è infiltrarsi nella complicata geografia del lago, ciò significa mutare le caratteristiche della lotta.

Anche il giuramento Boko haram di fedeltà all’Isis è tutto da verificare: non tutto il movimento originario vi aderisce e quando avviene molti Boko haram si sono già trasformati in banditi o ribelli etnici. Ciò provoca conflitti sanguinosi tra le varie fazioni ormai divise. Lo stesso Shekau nell’agosto scorso viene circondato da una milizia avversa che ha aderito all’Iswap (lo stato islamico dell’Africa occidentale), ma non accetta di arrendersi e preferisce darsi la morte. A quel punto circa 7000 dei suoi combattenti con le loro famiglie decidono improvvisamente di arrendersi a delle autorità nigeriane, le quali sono prese completamente alla sprovvista da una tale massa di ex jihadisti che depongono le armi: non era mai accaduto prima. Il paradosso è che la controversia tra i due gruppi verteva sui metodi del jihad con l’Iswap che criticava quelli di Shekau per la loro efferatezza.

Un altro esempio di mutazione riguarda le fazioni di ex Boko haram che si sono spostate negli ultimi anni verso occidente, nella Nigeria nord-ovest, esportando la pratica dei rapimenti di studenti al fine di ottenere riscatti.

Ormai si tratta di forme di gangsterismo che hanno provocato molte chiusure preventive di scuole e generalizzato tale forma di criminalità che coinvolge oggi ben oltre gli ex jihadisti. Un fenomeno simile sta accadendo nel Sahel.

La contesa tra i due movimenti principali –lo Jnim diretto da Iyhad Ghali e lo Eigs (lo stato islamico del grande Sahara)- è dovuta alle accuse mosse da quest’ultimo a Ghali di aver abbandonato la purezza dell’islam originario per accogliere le rivendicazioni etniche delle popolazioni locali.

Ghali stesso è un tuareg e ha più volte espresso la volontà di negoziare con il governo di Bamako. Un’eventuale trattativa non potrà che vertere sulle richieste si autonomia tuareg, utilizzando la sharia come schermo. È proprio questo che trova la drastica opposizione dell’Eigs il quale ripudia ogni forma di negoziato.

Essersi mescolati con la popolazione locale ha cambiato le agende e fatto divergere i due raggruppamenti, mostrando che l’evoluzione del jihad contemporaneo è molto più articolata di quanto si pensi. Realtà locali, necessità di inserimento e pragmatismo politico si intersecano con l’appello al jihad globale: ne consegue che siamo di fronte ad un fenomeno mobile ed in continua trasformazione.

Malgrado l’ideologia jihadista emani da un’interpretazione immutabile del Corano, la realtà è più forte della teologia ed incide anche sui movimenti radicali islamici più estremi. L’islam non è avulso dalla storia e dalle caratteristiche antropologiche delle popolazioni che lo hanno adottato. Anche il caso dei talebani lo dimostra: vent’anni dopo non sono più gli stessi così come l’Afghanistan non lo è.

L’occupazione delle città sta avvenendo con difficoltà nei confronti di una popolazione urbana non più disposta ad accettare le medesime imposizioni del 1996. Allo stesso tempo i talebani si trovano di fronte all’opposizione armata dell’Isis-Khorasan che li critica per la loro decisione di non esportare il jihad fuori dal territorio nazionale.

Traducendo: i talebani sono dei nazional-jihadisti pragmatici mentre l’Isis-K è per il jihad globale. Un altro esempio è la mutevole strategia di al-Qaeda che durante la guerra di Siria ha accettato di trattare con gli occidentali mediante la sua milizia locale al Nusra (oggi ha cambiato ancora nome).

L’opportunità politica è in grado di far cambiare direzione anche ai movimenti più radicali. L’analisi dei fenomeno jihadista deve tener conto delle realtà locali più che degli stilemi ideologici che si ritrovano simili nelle propagande dei diversi gruppi.

Gli analisti occidentali raramente fanno distinzioni tra le diversità dei vari raggruppamenti jihadisti né tengono conto dell’inculturazione in atto. Ad esempio dopo la fine della presenza occidentale a Kabul i media si sono concentrati sull’ispirazione che tale fallimento comporterà per le altre fazioni jihadiste e hanno fatto accostamenti semplificati (come: il Mali sarà il prossimo Afghanistan).

Peggio ancora qualcuno prevede che la vittoria talebana provocherà un contagio totalitario su tutti i musulmani. In realtà, malgrado la valenza emotiva, il processo è molto più politico. Ogni movimento armato –jihadista o no- deve darsi una strategia se vuole sopravvivere o sperare di vincere.

Attualmente hanno più successo i movimenti radicali islamici nazionalisti che non quelli legati al jihad globale: oltre ai talebani lo dimostrano movimenti come Hamas o Hezbollah perché in possesso di un’agenda nazionale. Il problema di altri gruppi è proprio questo: si tratta di terroristi globali o di raggruppamenti nazional-islamisti?

Se la contesa intellettuale tra la teoria dell’estremizzazione dell’islam e quella dell’islamizzazione dell’estremismo continua ad essere utile per comprendere ciò che avviene nella umma islamica, si deve tener conto anche dei molteplici influssi culturali locali e delle agende nazionali che trasformano lo stesso jihadismo dall’interno. 

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