Dobbiamo guardare all’Africa con occhi del tutto nuovi: il continente cambia molto più rapidamente dell’Europa. Si innova nell’economia con la genesi di una folta classe media (oltre 300 milioni) a cui si aggiunge un tipo nuovo di diaspora africana nel mondo, non composta solo da immigrati poveri in cerca di lavoro, ma da professionisti affermati e influenti. I nigeriani d’America, ad esempio, organizzarono una festa in un grande albergo di Washington per celebrare l’entrata nell’amministrazione di Joe Biden di almeno una decina di loro, tanto che paradossalmente oggi negli Usa i nigeriano-americani contano quasi più degli stessi afroamericani.

Nel continente si affacciano nuovi potenti investitori come l’Arabia Saudita, il cui fondo sovrano andrà a investire miliardi di dollari, ma anche i coreani del sud o gli indiani. Ormai è chiaro a tutti che il land grabbing o l’estrattivismo selvaggio delle materie prime non bastano più: l’Africa va trattata come un vero partner alla pari. Il continente ha le sue risorse e le sue ricchezze minerarie, e può diventare una piattaforma globale in tanti settori, a iniziare da quelli energetico o agroalimentare.

Un futuro per l’Africa

C’è un futuro per l’Africa nella globalizzazione, e il mercato se ne sta già occupando. Per gli africani – soprattutto giovani – è tutta un’altra storia: c’è un universo di underdog che cerca un’occasione e si muove per afferrarla dovunque sia. Quali alternative vengono offerte ai giovani del continente? Si tratta di una domanda per le economie più avanzate: se non ci sarà abbastanza lavoro molti giovani africani continueranno a spostarsi. Oggi non è più sufficiente un’attività economica informale purchessia: i giovani africani pretendono un lavoro formale e dignitoso.

La sfida del Piano Mattei è tutta qui: far scattare un circuito positivo di investimenti e joint venture con partner africani, in modo da creare una domanda di manodopera sul continente stesso. Anche il terreno politico si trasforma: assistiamo a una nuova assertività mediante la quale l’Africa decide da sola e vuole contare di più.

Da maggio di quest’anno la Tanzania non permetterà più l’esportazione di litio a meno che non sia lavorato sul posto. Non si tratta soltanto di una questione ecologica: si provi a immaginare l’influenza che tale provvedimento potrebbe avere sulla crisi del Kivu con la sua annosa depredazione.

Fino a oggi il nocciolo della crisi di quella martoriata regione è stato l’esistenza di molta ricchezza mineraria che vicini interessati e privati senza scrupoli hanno portato via, per rivenderla sul mercato internazionale come fosse propria.

Se si affermerà in futuro il principio che nessun minerale raro o prezioso può essere esportato senza essere lavorato in loco, le risorse del Kivu potrebbero trasformarsi da maledizione – quali sono per la popolazione – in un reale vantaggio. Per l’oro dell’Africa occidentale si parla di raffinarlo in loco invece di esportare (lecitamente o meno) il materiale grezzo negli Emirati come avviene ora.

Il debito

In un altro settore Benin, Ruanda e Uganda stanno innovando, costruendo un’industria tessile nazionale per uscire dalla dipendenza. In Africa vi sono problemi persistenti anch’essi in via di trasformazione. Il debito: sta rinascendo una crisi, ma molto diversa da quella del passato. Ora i creditori sono per lo più i privati e paesi come la Cina.

Il Fondo monetario internazionale (Fmi), che era il nemico degli anni Ottanta e Novanta, è divenuto un alleato che aiuta a rinegoziare nel quadro del G20. Inoltre l’esperienza africana in termini di buoni del tesoro sovrani prosegue e viene accolta con successo dai mercati finanziari.

Anche nella sanità c’è mutamento: ci sono malattie nuove come quelle non trasmissibili, diabete, tumori e infarti, e di conseguenza la sanità africana dovrà cambiare profondamente. Anche le crisi politiche – come quelle legate ai colpi di stato militari – esprimono qualcosa di diverso: non solo l’accaparramento del potere (tentazione sempre in agguato), ma anche la ricerca (confusa) di una nuova autonomia.

Sul continente infuria il dibattito sul modello di sviluppo e sul sistema democratico: le democrazie occidentali hanno deluso, ma non per questo gli africani si affidano a occhi chiusi alla Cina o alla Russia. Sono sorte scuole di politica cinese in alcuni paesi, tuttavia la dinamicità della società civile non viene meno, con le sue richieste di diritti e libertà.

Gli africani sanno quali sono i loro diritti e non temono di esprimersi. Dal punto di vista strategico il continente fa gola a molti: si negoziano nuovi accordi militari e la costruzione di basi navali ora anche sulla costa occidentale dell’Africa.

Risolvere le contese

La fuoriuscita dall’Ecowas (alleanza africana occidentale) di Mali, Niger e Burkina, che hanno creato l’Alleanza degli stati del Sahel (AES), diventa un esempio che potrà essere seguito da altri. Ciò spingerà le regionali – e si spera anche l’Unione africana – a essere più efficaci e rapide nella risoluzione delle contese.

Qui si lega la questione jihadista che ormai colpisce più stati: gli africani vogliono risolverla da sé, a costo di sbagliare. È una delle ragioni della cacciata dei francesi dalla regione occidentale del continente, ma anche del fatto che ci si rivolge a una pluralità di opzioni.

La Repubblica centrafricana fu la prima a usare la Wagner russa, ma ora ha aperto anche a contractor americani e sta ricucendo con la Francia. Nulla si può dare per scontato. C’è da tener conto dell’influenza di nuovi attori molto dinamici come la Turchia che ha più di 40 ambasciate in Africa. La Turkish Airlines è divenuto il primo vettore aereo continentale.

La stessa Russia, di cui tanto si parla in occidente, è presente con le sue armi ma fa figura da nano economico rispetto a tutti gli altri. L’Europa deve smettere di guardare al continente in ordine sparso e con vecchi schemi in genere incentrati sulla minaccia: l’Africa riserverà delle sorprese anche positive partecipando fattivamente all’equilibrio globale.

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